L’Italia dei beni culturali: i nodi del cambiamento. Ricordando l’impegno e le proposte di Giuseppe Chiarante, Roma, Senato della Repubblica, Sala Capitolare, 3 dicembre 2013
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Questo convegno segue di dieci anni un altro, presieduto da Giuseppe Chiarante, che ai beni musicali era interamente dedicato, con interventi che coprivano molti dei possibili aspetti di questo sfuggente concetto. Cosa sono infatti i beni musicali? La prima cosa che viene in mente sono gli oggetti. La musica, arte costosa e complicata, lascia dietro di sé molte tracce materiali. Ed infatti la parte del leone, negli atti pubblicati nel 2003 dall’associazione Banchi Bandinelli, la fanno la conservazione e il restauro degli strumenti musicali, e specialmente degli organi e degli strumenti di liuteria (con gli interventi di Giuseppe Basile e Renato Meucci), i fondi musicali negli archivi e nelle biblioteche, e in particolare la situazione della biblioteca del conservatorio di Napoli (interventi di Pietro Zappalà e Vincenzo de Gregorio), gli archivi sonori di musica colta e di tradizione popolare (interventi di Pasquale Santoli, Giorgio Adamo, Maria Sotgiu) il restauro (Carlo Federici), mentre Chiarante si occupava della situazione legislativa e Careri della natura del “bene musicale”. [1]Era stato l’intervento di Agostino Ziino però, nella sua appassionata veemenza, a mettere in luce il problema principale per la salvaguardia dei beni musicali in Italia; cioè che “La musica in Italia, storicamente, è sempre stata considerata non come un ‘bene’ storico e culturale, ma unicamente, o principalmente, nella sua dimensione ludica e circense”.[2]
Questa situazione di marginalità della musica nella cultura italiana è riscontrabile a molti livelli, ed è particolarmente drammatica per l’esclusione della musica dai programmi scolastici, la cui logica conseguenza è la percentuale strabordante di italiani “anadoremici”, come li definiva Pirrotta: cioè musicalmente analfabeti.[3]Eppure nessuna cultura europea ha avuto tanta importanza nella storia della musica quanto l’Italia. Le prime scuole professionali di musica sono state in Italia: erano i quattro conservatori attivi a Napoli per due secoli, Sei e Settecento. Il primo stampatore di musica nella storia era un italiano, Ottaviano Petrucci di Fossombrone, attivo a Venezia nella prima metà del Cinquecento. L’Italia ha dato al mondo l’opera, il violino, il pianoforte, il violoncello, pressochè tutti i generi di musica strumentale, i termini musicali (ancora oggi tutti in italiano, in tutto il mondo). La musica italiana, per secoli, è stata oggetto di ammirazione e imitazione da parte di tutti i musicisti europei, che quando potevano venivano in Italia a impararne i segreti. Com’è stato dunque possibile che tale immenso patrimonio sia caduto in tale discredito?
Il “problema culturale” che investe la musica in Italia è noto da tempo, anche se non c’è consenso sulle sue cause, che sono profonde e remote.[4]Su di esse mi sono formato una personale opinione che fa risalire l’esclusione della musica dal dominio della cultura italiana al fatto che per la musica, a differenze di tutte le altre arti storicamente attestate, non sono sopravvissuti significativi modelli provenienti dall’antichità classica greca o romana. Così, se per la poesia, la letteratura, l’oratoria, la scultura, l’architettura, la pittura gli artisti moderni hanno potuto rifarsi ai modelli classici, per la musica questo non è stato possibile. Infatti, se per “poesia classica” ci si riferisce a Virgilio o ad Orazio, per “musica classica” ci si riferisce a Mozart o Haydn, vissuti circa 17 secoli dopo. Leggendo i trattati e gli scritti teorici italiani, da Zarlino a Padre Martini, si resta colpiti da quanto questo problema li ossessionava, al punto che Martini dedicò alla musica greca (di cui allora erano note praticamente solo le fonti teoriche) il secondo e il terzo volume dei tre pubblicati della sua Storia della musica.[5]
Per una cultura tradizionalmente conservatrice come quella italiana, la mancanza di modelli musicali provenienti dall’antichità è stata letale: la musica di fatto è stata esclusa dal dominio della cultura e relegata a quello del divertimento. In altri paesi, e specialmente in Germania, la musica è entrata a far parte della cultura “alta” già nei primi decenni dell’Ottocento. Il merito dell’assunzione della musica nel reame dello spirito fu soprattutto del filosofo e teorico della musica Adolf Bernhard Marx (1795-1866), al quale fu offerta la prima cattedra universitaria in musica dei tempi moderni (Berlino, 1830), nella stessa università deve dal 1818 insegnava Hegel. In Italia il primo professore ordinario di storia della musica fu Luigi Ronga (alla Sapienza, nel 1958). Non sorprende dunque che nei paesi tedeschi sia normale considerare la musica come una essenziale componente dell’educazione e della cultura, un idea che da noi fa ancora fatica a farsi strada.
Vediamo un esempio concreto di questa situazione. Nel già citato convegno del 2003 sui beni culturali musicali Giuseppe Basile aveva riportato il caso del restauro, a cura del Corso sperimentale di formazione professionale sulla conservazione e il restauro degli organi storici presso l’istituto Centrale per il restauro, dell’organo Altemps di Filippo Testa(1701) nella Basilica di S. Maria in Trastevere, a Roma. Restaurato nel 1996-7, quest’organo è uno strumento di eccezionale bellezza e valore.[6] Ora, nell’ottima “guida rossa” del Touring Club Italiano, edizione 2004, la basilica di S. Maria di Trastevere è trattata alle pagine 564-567, con informazioni precise su tutto l’interno.[7] La guida dà conto del pavimento cosmatesco, del soffitto ligneo, dei sarcofagi e cenotafi, dei quadri e dei mosaici: ma sull’organo Altemps nemmeno una parola. Eppure chiunque entri nella basilica non può dare a meno di notarne la bellissima mostra: ma, essendo un organo, e dunque uno strumento musicale, non fa parte della cultura. Ho voluto fare una controprova, e sono andato a vedere un caso estremo: cioè se la stessa guida, nel descrivere la basilica di S. Giovanni in Laterano, parlava del monumentale organo Blasi del 1598, che incombe grandioso dalla cantoria del transetto destro. In effetti questa volta la guida non riesce ad ignorare l’organo; ma lo menziona di sfuggita, senza rilevarne l’importanza storica, né il fatto che nel 1707 fosse stato suonato da Handel – una circostanza che difficilmente sarebbe sfuggita oltralpe.[8]E’ il caso di ricordare che il Ministero dei Beni culturali ha riconosciuto alla collana del Touring Club la valenza di repertorio dei beni culturali esposti in Italia: da questo repertorio la musica, come sempre, è tenuta ai margini.
S. Giovanni in Laterano: organo Luca Blasi (1598)
La storia musicale italiana ha lasciato dietro di sé molto di più dei due pur bellissimi organi romani. Nessun altro paese possiede fondi musicali archivistici e bibliotecari nella stessa quantità. Il benemerito Istituto di bibliografia musicale– IBIMUS, fondato e diretto da Giancarlo Rostirolla, dal 1979 censisce e cataloga i fondi musicali italiani: un lavoro che è culminato nel CABIMUS, la Guida alle Biblioteche e agli Archivi Musicali Italiani (Clavis Archivorum ac Bibliothecarum Italicarum ad MUSicam artem pertinentium) oggi fruibile anche in rete all’indirizzo http://www.ibimus.it/cabimusonline/inizio.html
La versione cartacea del CABIMUS è un imponente volume che in oltre 1000 pagine elenca le biblioteche italiane che possiedono fondi musicali. Le biblioteche in esso descritte raggiungono il numero di 1682 (ulteriormente aumentate negli aggiornamenti) che fanno dell’Italia il paese con il maggior numero di documenti musicali al mondo.[9] Purtroppo l’indifferenza con cui la politica italiana considera i beni culturali ha colpito anche qui con durezza: infatti all’IBIMUS. così come ad altre benemerite istituzioni di cultura musicale tra le quali l’Istituto Italiano di Storia della Musica (da qualche anno trasformatosi in Fondazione) e la Società Italiana di Musicologia, per il 2013 è stato negato da parte del MIBAC/Direzione Generale per le Biblioteche e gli Istituti Culturali perfino quel piccolo e simbolico finanziamento che finora era servito a tenere in vita queste tre importanti istituzioni.
Non tutte queste biblioteche sono però agibili e funzionanti. In molti casi si tratta di archivi parrocchiali o monastici la cui accessibilità dipende dalla buona disposizione dei religiosi, e in altri di archivi comunali che spesso soffrono per mancanza di personale e di fondi. Un caso a parte sono le biblioteche dei conservatori, che a causa di una assurda situazione legislativa sono assimilate a biblioteche scolastiche, e gestite da un unico bibliotecario che, in base ad una intricata situazione contrattuale, è tenuto a un servizio di 12 ore alla settimana: nel resto dei giorni la biblioteca è chiusa o affidata a personale ausiliario (bidelli) o a docenti in soprannumero.
Il discorso dei beni musicali però non può e non deve limitarsi ai beni musealizzabili, cioè agli oggetti. Infatti, a differenza delle arti visive, per le quali gli oggetti sono il risultato finale, per la musica gli oggetti sono solo un mezzo. Naturalmente anche per le arti visive è essenziale la fruizione; per esempio, i bronzi di Riace, finchè se ne stavano sotto la sabbia dello Ionio, non esistevano per la storia della scultura. E, simmetricamente, l’arpa Barberini ha un valore artistico indipendentemente dal fatto che suoni o no. E tuttavia la musica, in quanto arte performativa, può essere musealizzata solo fino a un certo punto. Quello che conta è che venga incessantemente praticata e tenuta in vita, o, quando è possibile, recuperata. Vorrei qui fare qualche esempio per mostrare come un’accorta gestione dei “beni musicali” possa anche avere ricadute importanti sul piano economico e dell’occupazione.
A Cremona è stato recentemente inaugurato un museo unico al mondo: il “Museo del violino” (http://www.museodelviolino.org/). Non si tratta di uno dei tanti musei italiani che espongono qualche strumento musicali in teche di vetro (dei quali pure Renato Meucci nel 2003 elencava lo stupefacente numero di 280!) ma di una struttura radicalmente nuova, che integra la conservazione con la didattica, la ricerca, la musica dal vivo, la competizione (concorsi di liuteria). Il risultato è di lanciare ancora di più Cremona come centro mondiale della liuteria, un compito che cumunque parte da basi solide. Infatti, soltanto le botteghe di liutai aderenti al “Consorzio Liutai Antonio Stradivari“ sono sessantaquattro, con un giro d’affari di 4.8 milioni di euro all’anno. Nell’ultimo anno l’esportazione di strumenti ad arco italiani ha avuto un incremento del 53, 7 % e costituisce la metà delle importazioni nei mercati di Giappone, Cina, Stati Uniti e Corea del Sud. Tutto bene dunque? Non proprio, perché il mercato vive soprattutto di esportazione mentre il mercato interno è in calo continuo. In Italia le orchestre chiudono, e quelle che resistono pagano poco e male, specialmente i giovani musicisti. Le conseguenza è che la musica italiana è più conosciuta in Corea che in Italia, il che mette a rischio il bene musicale più importante di tutti, la conoscenza. In un’intervista al Sole-24 ore del 29 settembre 2013 il liutaio cremonese di origine svizzera Robert Gasser esprime questa preoccupazione con grande chiarezza: “Il nostro compito più grande è conservare il valore di un sapere. Quando andiamo in Oriente vediamo che lì siamo oggetto di grande considerazione perché portiamo un sapere, qualcosa che nonostante tutto loro non hanno. Questo è un patrimonio da conservare”.[10]
Cremona, museo del violino: auditorium ( Studio Palù & Bianchi, 2013)
I primi “Stati generali della musica” che si sono tenuti a Cremona nel settembre 2013 in occasione di Mondomusica – Salone internazionale degl strumenti musicali d’artigianato – hanno sottolineato l’importanza della formazione, perché tutti i passaggi, dal legno al violino, sarebbero inutili se non ci fosse un mercato di cultura musicale che li accoglie. Se a Cremona la liuteria è diventata un bene importante, tanto da essere dichiarata patrimonio immateriale dell’umanità dall’Unesco, è perché lì si è realizzata una stretta sinergia nel tempo tra musicisti e liutai, permettendo a entrambi di crescere nei rispettivi settori.[11]
Negli stessi giorni di Mondomusica si è tenuta a Cremona un altro evento importante: Cremona pianoforte, dedicato ad un mercato molto diverso da quello della liuteria. Se infatti il pianoforte è uno strumento più universale degli strumenti ad arco, ed accessibile ad un pubblico più ampio, il mercato dei pianoforte è da sempre dominato dalla grande industria: tedesca e giapponese per i prodotti di qualità alta e medio-alta, poi dei paesi emergenti (Cina, Corea, Est europa) per quelli di qualità media e bassa. Attualmente il mercato dei pianoforti di qualità bassa è seriamente minacciato dalla diffusione delle tastiera elettroniche, molto più economiche e trasportabili.
A differenza di quanto è successo per la liuteria, l’Italia è sempre stata ai margini della produzione dei pianoforti, e questo nonostante che l’invenzione del pianoforte sia interamente opera di un italiano, Bartolomeo Cristofori, nel 1698. Eppure la tradizione italiana non si è mai interamente spenta, emergendo episodicamente con punte di eccellenza come la fabbrica Anelli (1896-1961) e l’avventura di Cesare Augusto Tallone (1895-1982) che per primo osò sfidare la supremazia tedesca e produrre il primo pianoforte gran coda da concerto italiano. Nonostante la qualità dei suoi strumenti, Tallone non riuscì a intaccare la forza dell’industria tedesca, allora all’apice della sua potenza, e non ancora insidiata dalla concorrenza nipponica.
Il sogno di Tallone non rimase però lettera morta. Agli inizi degli anni Ottanta un giovane ingegnere diplomato in pianoforte, Paolo Fazioli, concepì l’idea di costruire il miglior pianoforte da concerto del mondo. Fazioli assunse le superstiti maestranze di Tallone, e fondò la sua fabbrica a Sacile di Pordenone. La filosofia di Fazioli non era quella di imitare i pianoforti tedeschi, ma di creare uno strumento “italiano”, dotato di una sonorità inconfondibile e ispirata alla tradizione italiana.[12]Oggi, dopo trent’anni, i pianoforti Fazioli, così come quelli di un altro interessante costruttore assai più “esoterico”, Luigi Borgato,[13]interamente prodotti a mano in Italia, sono considerati i migliori pianoforti da concerto esistenti, e anche i più costosi, e stanno erodendo significativamente il monopolio di Steinway nella principali sale da concerto di tutto il mondo. E’ interessante notare che Fazioli e Borgatocostruiscono solo pianoforti di altissima qualità, occupando la nicchia di mercato detta high-end, trascurando del tutto la produzione di basso profilo.
Ho voluto accennare a questi due casi, entrambi riguardanti strumenti musicali, ma il discorso potrebbe estendersi anche ad altri tipi di “beni musicali”. Per esempio, il Sole 24-ore pubblicava, il 13 novembre scorso, una notizia dal titolo piuttosto incredibile: Boom della musica classica in Italia: i ricavi crescono del 53% nei primi 9 mesi dell’anno. “In Italia, in un contesto quanto mai difficile, il segmento della musica classica mostra per la prima volta un segnale di forte controtendenza: cresciuto del 53% nei primi nove mesi del 2013 arriva a rappresentare ben il 12% del mercato italiano, contro il solo 7% raggiunto nel 2012.”[14]
Questa notizia è tanto più incredibile, quanto più questa crescita di verifica in un paese, il nostro, dove le orchestre chiudono, i conservatori subiscono riforme che restano a metà del guado e sempre, rigorosamente, “ a costo zero”, la cultura musicale viene ignorata dalle reti televisive in chiaro, o trasmessa al mattutino, quando i monaci si alzano per pregare, e i giovani musicisti sono costretti a cambiare mestiere, emigrare all’estero, o vivere di espedienti in patria.
Vorrei ora tornare al tema di partenza: quale strategia per la salvaguardia dei beni musicali? Da quanto ho detto finora, spero sia risultato con sufficiente chiarezza che il “bene” musicale più importante è la trasmissione della conoscenza. Questa trasmissione ovviamente deve avere il suo fondamento nei beni materiali: strumenti, documenti, teatri, sale da concerto; ma anche in beni immateriali, come la tradizione orale e la qualità e capillarità dell’insegnamento musicale e musicologico, al quale deve essere consentito di raggiungere quel livello che altrove esiste.
In sostanza, il “bene musicale” di cui l’Italia è portatrice va considerato nella sua interezza, come una tradizione che affonda le sua radici nel passato ma che è tuttora vivente. Un esempio di questa tradizione vivente lo abbiamo a Roma, ed è l’Accademia Nazionale di S. Cecilia. Si tratta di una delle più antiche istituzioni musicale al mondo, probabilmente la più antica ancora in vita: fu infatti fondata nel 1585 con una bolla papale da Papa Sisto V. L’accademia, che possiede una importante biblioteca e un proprio museo di strumenti musicali, è tutt’altro che un museo: anzi , è una istituzione musicale attivissima, che organizza e gestisce un’impressionante mole di concerti da camera e sinfonici, corsi di perfezionamento, iniziative culturali ed editoriali, corsi di formazione orchestrali per ragazzi, ed è titolare di una delle dieci migliori orchestre sinfoniche al mondo. Direi che l’Accademia è un esempio perfetto di cosa intendo per “bene musicale”.
Come salvaguardare questo immenso e unitario “bene” musicale di cui l’Italia (a volte verrebbe da dire immeritatamente) è depositaria? La risposta è semplice: investendovi denaro e risorse, con la certezza che il denaro e le risorse investite nella cultura e nella musica non sono gettati al vento, ma ritornano indietro moltiplicati, in termini di posti di lavoro e di quote di mercato e di prestigio in ambito internazionale. L’Italia potrebbe riacquistare il ruolo di guida che ha avuto per secoli nel campo della musica, se solo una classe dirigente, che finora è stata incredibilmente miope, lo consentirà.
[4] Sul “problema culturale” nella prima metà del Novecento si veda il mio saggio La formazione dei musicisti italiani (1900-1950),in La cultura dei musicisti italiani nel ‘900, a cura di Guido Salvetti e Maria Grazia Sità, Milano, Guerini 2004 (Musica nel Novecento italiano, 2), pp. 15-54. La situazione della musica nell’Italia post-unitaria è l’oggetto del recentissimo e pregevole volume di Lorenzo Santoro, Musica e Politica nell’Italia unita. Dall’Illuminismo alla repubblica dei partiti. Venezia, Marsilio 2013.
[5] Giovanni Battista Martini, Storia della musica. Bologna, Lelio Dalla Volpe 1757 (I), 1770 (II), 1781 (III).