Interventi – Così scompare il patrimonio demoetnoantropologico (di Paola Elisabetta Simeoni)

Interventi – Così scompare il patrimonio demoetnoantropologico (di Paola Elisabetta Simeoni)

Gubbio, Festa dei ceri

Gubbio, Festa dei ceri


Il patrimonio  demoetnoantropologico è di fatto nuovamente scomparso nella riorganizzazione del MiBACT. Confuso come nei tempi più bui del Ministero con la storia dell’arte e con l’archeologia, è considerato subalterno alle altre categorie di beni, così come subalterne sono le sue radici culturali rispetto alla cultura dominante, a denotare il pericoloso clima antidemocratico delle politiche culturali attuali.
L’antropologia culturale è ambito scientifico che ha in Italia un ricco bagaglio di pensiero e un ricco patrimonio, è una disciplina trasversale di interpretazione dei fenomeni culturali.
Ha permesso la definizione della nozione di “territorio”, vera eccellenza italiana, luogo complesso di commistioni storiche e di negoziazioni culturali, le cui vetrine sono le città, i paesi, le campagne, le coste, il paesaggio e le attività delle comunità che le abitano. Il territorio è legato al concetto di “bene culturale”, nozione antropologica che considera “ogni” cultura una testimonianza di civiltà, oggi scomparse con l’avvento delle definizione desuete di “antichità e belle arti” e con una pratica di turismo legata unicamente alla “vetrina” grande museo.
Il patrimonio DEA è il patrimonio più diffuso di questo paese. E’ tradizione materiale e immateriale trasmessa di generazione in generazione, espressione “viva” di cultura e veicolo di eredità culturale.
Eppure nulla è stato fatto dal Ministero per questo patrimonio:

  • la direzione dell’Istituto Centrale per le demoetnoantropologia (IDEA) già Museo nazionale per le arti e tradizioni popolari è affidata per statuto a un dirigente storico dell’arte, la Soprintendenza al museo nazionale preistorico-etnografico “Luigi Pigorini” è affidata a un archeologo
  • non sono mai stati effettuati concorsi dirigenziali per etnoantropologi,
  • non vi sono posti di ruolo nelle soprintendenze competenti,
  • non vi sono esperti etnoantropologi in servizio sul territorio,
  • non sono previsti esperti etnoantropologi nei Comitati tecnico-scientifici,
  • non sono stati inseriti etnoantropologi negli ultimi bandi per la immissione nel MiBACT e per la formazione di giovani professionisti.

Ancora: i due musei nazionali dipendono da due diverse Direzioni generali, quella per le antichità e quella per il paesaggio le belle arti, l’architettura e le arti contemporanee operano parallelamente e, in periodo di spending review, non è venuto in mente ad alcuno di razionalizzare e dare finalmente espressione scientifica seria a un accorpamento sotto il segno DEA di queste due importanti istituzioni, preferendo invece lo sperpero sia culturale che economico.
Last but not least, il Codice dei beni culturali e del paesaggio nega di fatto la tutela del patrimonio immateriale attraverso quel codicillo 7 bis, articolo 1, che non contempla la dimensione immateriale di tale patrimonio dimostrando ulteriormente la chiarissima incapacità del pensiero delle Istituzioni ad adattarsi alle novità di cui si riempie la bocca.
Senza rottamare alcunché, anzi, ma assecondando lo sviluppo culturale e scientifico e senza aggravio di spesa, sarebbe doveroso superare la qualità di “immutabilità” dell’opera d’arte e aprirsi alla volatilità dell’immateriale, alla vitalità, alla trasformazione, alla trasmissione, alla creazione culturale caratteristiche che almeno in parte non sono solo qualità peculiari del patrimonio DEA ma anche di altri patrimoni e delle misteriose “attività” culturali. Di queste realtà si imbrattano solo titolazioni ministeriali, carte, pagine web, parole, per le quali non vi è ancora, come per il patrimonio immateriale, alcuna definizione giuridica e perciò alcuna tutela.
Ma il ministro sa che cosa è il patrimonio demoetnoantropologico? Crede sia sufficiente organizzare convegni sui beni immateriali con contenuti politici ad alti livelli internazionali e a forte impatto mediatico, ma con titoli improbabili perché chiaramente non organizzati da chi si intende di questi argomenti, lontani dal contesto scientifico e territoriale e avulsi dalle reali politiche di tutela?
E sa, infine, il ministro, che mentre si punta sul “grande museo vetrina” per il turismo, migliaia di piccoli musei locali (vi sono più di 3.000 musei DEA in Italia) sono costretti a chiudere per mancanza di fondi?

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