Pubblichiamo l’intervento pronunciato da Margherita Eichberg il 23 ottobre al conferimento del premio Ranuccio Bianchi Bandinelli
È certamente un onore ricevere questo premio. Viene assegnato da un’associazione di grande prestigio, intitolata ad un personaggio che ha fatto la storia dell’archeologia del Novecento, e che ha collaborato alla formazione dello stesso ministero dei Beni Culturali, già Direzione generale del ministero della Pubblica Istruzione. E peraltro nato a Siena dove ho cominciato a lavorare nel ministero a gennaio del 2000.
Ma mi è tanto più gradito in quanto conferito per l’attività di tutela dei beni culturali e paesaggistici. Non per un progetto di restauro ben eseguito, per un allestimento museale raffinato ed efficace nella comunicazione, per una mostra di successo o per una pubblicazione di particolare valore scientifico, tutte cose che nel corso del tempo molti funzionari e dirigenti tecnici del ministero riescono a realizzare e ad ottenerne il relativo riconoscimento. Non per una “scoperta”, che pure capita di fare, in campo archeologico e non solo. È di poche settimane fa la notizia dell’individuazione dei resti di una delle basiliche ambrosiane, avvenuta durante una campagna di lavori condotti dalla soprintendenza di Milano con l’università. La ricerca infatti è una delle tante attività che anche i nostri uffici periferici di tutela conducono, attivando spontaneamente le opportune sinergie, ora esplicitamente indicate dal regolamento ministeriale, ma già in essere da sempre, tra detentori di beni, di competenze, di metodo e di saperi. Tale ricerca peraltro costituisce la giusta premessa per i corretti interventi di restauro dei monumenti anche se frena il tanto atteso taglio del nastro di un’opera pubblica.
L’attività di tutela dei Beni Culturali – alla quale l’associazione Bianchi Bandinelli dirige giustamente la sua attenzione – ha subito in questi ultimi tempi un lieve appannamento, in favore della valorizzazione, settore comparso nella nuova denominazione scelta per il ministero nel 1998. Ai Beni culturali, nell’allora nuovo decreto, venivano infatti aggiunte, le “attività culturali”, perché già si sentiva, oltre vent’anni fa, la necessità di “dinamizzarli”. È quanto, con un velo di polemica – ma soprattutto di timore – asseriva Salvatore Settis in un suo testo dei primi anni Duemila, paventandone conseguenze non tutte positive per il patrimonio.
E così le “attività” culturali, preziose e complementari alla tutela, hanno preso via via il sopravvento, sui media e nei programmi ministeriali, per il maggiore gradimento che riscuotono nei cittadini, e di conseguenza per la migliore visibilità che offrono al nostro ministero. Per anni le soprintendenze avevano condotto studi e restauri sui beni culturali, parallelamente all’organizzazione di mostre ed eventi culturali, all’apertura di musei e luoghi della cultura, alla trattazione di pratiche per l’autorizzazione a lavori edilizi e di restauro o per la concessione di contributi. Attività di tutela e valorizzazione venivano condotte negli stessi uffici e dagli stessi soggetti, facendo derivare le une dalle altre. Accrescendo le loro competenze con lo studio e la ricerca sul campo, rese possibili anche dall’esercizio del cantiere, i tecnici ministeriali riuscivano ad avere la giusta visione dei temi da trattare, ad accrescere le conoscenze, ad individuare le soluzioni. Figure di riferimento sul territorio riuscivano a far condividere le scelte adottate, rendendone partecipe la collettività con attività di comunicazione.
È di questa comunicazione che oggi avremmo tanto bisogno. La tutela – come è scritto nel titolo del premio – è “impegno civile”. È il Codice stesso a chiederci di esercitarla. Ed è il Codice a ricordarci che sui beni culturali spetta allo Stato. Ma non è sempre facile farne capire le ragioni, far conoscere l’importanza dei beni da tutelare. Chi fa tutela è spesso lasciato solo, anzi muto: ad ostacolare la comunicazione sono talvolta gli stessi media.
È accaduto a Reggio Calabria, quando la soprintendenza difendeva il basolato storico della città ricostruita dopo il sisma del 1908, ed i media difendevano invece un appalto in corso, con articoli dettati dagli stessi potenti interessati. È accaduto ancora a Reggio Calabria, quando la soprintendenza si è spesa per la tutela di un’opera contemporanea di Nervi, il Lido comunale Genoese Zerbi, realizzata all’inizio degli anni Sessanta, struttura non amata dai cittadini ma di evidente importanza per la storia dell’architettura, come riconosciuto anche dagli accademici.
La tutela – recita il Codice – consiste nell’individuazione dei beni e nelle azioni volte a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione. Il suo esercizio – è scritto nero su bianco – “si esplica anche attraverso provvedimenti, volti a conformare e regolare diritti e comportamenti inerenti al patrimonio culturale”. Il ministero lavora tanto “a monte” quanto “a valle”. “A monte”, attraverso leggi e circolari, opportunamente diramate anche dagli uffici periferici; “a valle” attraverso l’azione delle soprintendenze, che si esplica anche con l’istruttoria, l’autorizzazione, la sorveglianza, l’indirizzo di lavori di restauro o di opere edilizie in contesti vincolati.
Nel corso degli ultimi anni il ministero ha pubblicato, in ottemperanza alle leggi sulla trasparenza, l’elenco dei procedimenti che trattano gli uffici di tutela, con le procedure, i tempi, i fac-simili delle domande con l’elenco degli allegati necessari. Ho tentato ed in parte attuato la copianificazione delle zone tutelate dal punto di vista paesaggistico. Cittadini ed interlocutori istituzionali dovrebbero pertanto conoscere quali sono i margini di azione nelle trasformazioni del territorio, visionando le norme di piano paesaggistico scritte dagli enti locali con il concorso del MiBACT.
In materia paesaggistica, un recente decreto ha semplificato le procedure di autorizzazione riducendo i tempi dell’istruttoria e l’elenco delle opere soggette al suo rilascio. Ma sono ancora molti gli atti amministrativi che gli uffici di tutela devono emanare, seguendo procedure talvolta complesse, in continuo divenire, sulle quali non ci sentiamo mai sufficientemente preparati e che sembrano scritte per renderci impotenti.
Qualcuno ha scritto – interpretando il malcontento diffuso dai media – che le soprintendenze sono diventate la bad company del ministero. Eppure dietro ad ogni azione che avviamo c’è una ricerca appassionata. Condotta con indicazioni di metodo adeguatamente formulate dalla teoria, dalla prassi, dalle norme e dalle circolari. Le motivazioni che supportano i nostri atti sono di tipo scientifico. Non solo e non tanto nel merito, ma nel metodo. Con un’adeguata comunicazione potrebbero tradursi in costruttive indicazioni a monte, se ci fosse un opportuno coinvolgimento.
È un privilegio – è stato detto – lavorare nei beni culturali. Nel congedarsi dai colleghi del ministero il Segretario generale arch. Recchia, in quiescenza da poche settimane, ha detto che “facciamo un lavoro bellissimo”. E noi ne siamo convinti, al punto da svolgerlo senza risparmio di forze. È un lavoro bellissimo, anche quello non coronato da successo. Anche le azioni che non producono visibilità positiva. Quelle che non intrattengono pubblico o che sembrano antieconomiche nel rapporto tra sforzo e risultato.
Del resto se la tutela è nel codice va esercitata con senso del dovere. Non con l’ansia di visibilità o di produrre risultati numerici. C’è il piacere della conoscenza, l’allenamento per gli occhi e per la mente. Ma se è vero che viene svolto con piacere, è anche vero che attivare la tutela getta le premesse per il futuro. Approfondirne la conoscenza, apre gli occhi sui rischi per il patrimonio che si nascondono dietro l’angolo e ci attrezza per fronteggiarli.
Ecco quindi che occasioni come queste sono incoraggianti. Non solo e non tanto per chi riceve il riconoscimento, ma per tutti gli “oscuri” funzionari che lavorano dietro le quinte. Per i dirigenti che dirigono le tanto bistrattate soprintendenze e per i funzionari tecnici che vi lavorano, che esercitano direttamente la tutela di settore o che la coordinano. La figura del soprintendente, infatti, è l’espressione del lavoro di decine di persone: funzionari la cui firma si legge negli atti, e che sono tanto più importanti da quando ha preso corpo la tutela “olistica”. Ma anche di altri tecnici ed amministrativi i cui nomi non compaiono.
E chiudo da dove sono partita. Da Bianchi Bandinelli che dà il nome a questo premio. Nel 1943 fu pubblicata una sua raccolta di scritti, intitolata “Storicità dell’arte classica”. In essa si rivendicava il ruolo dell’artigianato artistico come tessuto connettivo dal quale nascevano le grandi personalità artistiche.
È una visione che ha lasciato il segno. E che finora non è stata ridiscussa. Ecco dunque ribadita la missione di tutela del “tessuto”, e non solo dei capolavori. Delle tappe di un percorso, tutto e sempre da indagare, non solo del suo punto di arrivo. Il nostro impegno trova dunque un’autorevole premessa. La nostra azione il suo suggello.E attraverso questo premio fa sentire la sua voce.