A quanto riferiscono le agenzie di stampa, il ministro Dario Franceschini nell’annunciare l’ennesima puntata del sequel “Riforma (?)” ha fatto riferimento a Giuseppe Bottai per giustificare il nuovo ritaglio territoriale compiuto a Roma e a Pompei. Il rimando riveste interesse: molto di più dell’avvenuto ritaglio, che rientra a pieno titolo nell’azione di indebolimento, progressivo e sempre più evidente, del sistema sia di tutela sia di collegamento tra tutela e valorizzazione fino a poco tempo fa vigente in Italia.
Sistema, occorre dire, che derivava proprio dalla legge n. 1089 del 1939, quella voluta da Giuseppe Bottai, al tempo ministro dell’Educazione nazionale. Ma in quella legge il nucleo fondamentale è costituito dalla ripresa e dall’aggiornamento dei principi per la prima volta evidenziatisi nel chirografo di Pio VII. La data (1802) di quest’atto non è lontana da quella (1796) delle sette lettere che Quatremère de Quincy indirizzò al generale Francisco de Miranda, maresciallo di Francia, a proposito della spoliazione di opere d’arte conseguente al trattato di Tolentino ai danni delle antichità, ma non solo, di Roma. Nella terza di queste lettere, Quatremère afferma che “spezzettare il museo di antichità di Roma sarebbe un’alta follia e con una conseguenza irrimediabile… il territorio stesso fa parte del museo… che si compone di statue… ma nondimeno di luoghi, di siti, di colline, di strade, di vie antiche”.
Carlo Fea, nel comporre il teso del chirografo, e poi Cesare Brandi e Giulio Carlo Argan nel riversare sapientemente i concetti qualificanti di questo nella legge n. 1089 tennero ben presente il principio, e quindi la conseguente prassi, dell’unitarietà tra museo e territorio. E il ministro Bottai accolse l’impostazione che veniva da tale lunga ed autorevole tradizione, completando così la sua legge. Legge che va sotto il suo nome quando se ne sdegna, strumentalmente, l’epoca di elaborazione e il generale quadro politico all’interno del quale fu concepita. Legge, però, che ben pochi riportano, come si dovrebbe per onestà intellettuale, ai suoi due ispiratori, Brandi e Argan, i soli che avrebbero potuto, come hanno in realtà fatto, far frutto del chirografo, formalmente, Chiaramonti, in realtà di Fea.
Quando il ministro Franceschini rimanda a Bottai, oltre a commettere un errore per quanto riguarda l’azzardato paragone a proposito del metodo seguito (non interessano di certo qui le circolari di attuazione), non sa di aver osato troppo. Quali sono i suoi consiglieri versati nella conoscenza, e nella critica della conoscenza, relativa al sistema di gestione dei Beni Culturali italiani, e quanto valgono a paragone di Cesare Brandi e di Giulio Carlo Argan (per tacere di Carlo Fea)?