di Pier Giovanni Guzzo
Centotrent’anni fa nella sua seconda relazione al ministro della Istruzione pubblica, Giuseppe Fiorelli, Direttore generale delle Antichità e Belle arti, esplicitava “la necessità che alla direzione dei musei regionali… sia pure annessa la direzione degli scavi, per quella unità d’indirizzo senza cui la buona amministrazione non potrebbe ritenersi istituita” . La “buona amministrazione” nel settore della pubblica amministrazione del quale era responsabile Fiorelli consisteva “sia nel tutelare le memorie patrie sia nel procacciare il maggior utile agli studi”, come già egli stesso l’aveva definita nella precedente relazione al ministro. In questa stessa, Fiorelli prefigura l’impegno di funzionari scientifici, in numero congruo alle necessità ed anche qualificati “colla preparazione negli studi” così che “potranno trattare con competenza tutto ciò che riguarda il buon andamento degli scavi, l’ottimo restauro dei monumenti, e l’ordine dei musei e delle gallerie” .
In armonia con questi principi è stata conformata l’organizzazione, centrale e periferica, della Direzione generale, in precedenza incardinata nel ministero della Pubblica Istruzione, in seguito, dal 1975, nucleo di un nuovo ed autonomo ministero, variamente intitolato ai Beni culturali, con oscillanti aggregazioni dello Spettacolo, dello Sport, del Turismo. Come regalo del Natale 2014, è entrato in vigore l’ultimo, in ordine di tempo, regolamento del ministero (con D. P. C. M. 29 agosto 2014 n. 171 entrato in vigore l’11 dicembre 2014) al quale hanno fatto seguito i decreti ministeriali nn. 43-44 del 23 gennaio 2016. Nel combinato disposto di tutti questi provvedimenti si ribalta di 180° l’impostazione di unitarietà tra la tutela del territorio storico per opera delle Soprintendenze e la gestione, a questa finora collegata, dei musei: e questo unico argomento si desidera qui commentare, tralasciando tutte le altre parti dello stesso regolamento pure meritevoli di attenzione (ad iniziare dalla dizione, ormai abolita, “Soprintendenze Archeologia” all’articolo 31, nella quale non si sa se ammirare di più l’acrobazia grammaticale o la tacitiana sintesi).
L’originaria unitarietà della tutela territoriale e dei musei afferenti allo stesso comprensorio offriva manifesti vantaggi dal punto di vista sia della ricerca scientifica sia della completezza della tutela. Infatti, tanto per esemplificare, nuovi ritrovamenti potevano raccordarsi a quanti già fossero conservati in un museo, provenienti dallo stesso sito; oppure reperti già musealizzati potevano condurre ad ampliare la conoscenza di siti territoriali. Il circuito che si istituiva era, quindi, assai virtuoso: sia per la ricerca storica sia per l’applicazione della tutela.
Ambedue questi obiettivi erano compresi nella linea di condotta che Fiorelli aveva esposto al ministro, più di un secolo fa. Ma rimangono, oggi, ancora attuali?
Da vari anni alle soprintendenze si addossano sempre più defatiganti compiti amministrativi (forse meglio da definire: burocratici), non tenendo che in scarsissimo conto per le periodiche valutazioni del rendimento dei funzionari la rispettiva produzione scientifica (quella che Fiorelli richiedeva fosse presente nei funzionari).
L’applicazione della legge di tutela necessitata dall’articolo 9 della Costituzione, che da sempre ha suscitato i sospetti dei pubblici amministratori, ha molto recentemente ricevuto l’attenzione del presidente del Consiglio dei ministri pro tempore, Matteo Renzi. Il quale si è detto contrario al fatto che un sindaco debba vedere ostacolati o, peggio, denegati i propri progetti da parte di un soprintendente. Una così decisa e precisa presa di posizione contraria all’applicazione di una legge dello Stato non si era ancora mai sentita, nella pur variopinta storia della nostra Repubblica. Anche se non ne erano mancati segnali premonitori: il più evidente dei quali era stata l’istituzione, nel 1964, della commissione parlamentare di indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio. Non a caso, infatti, la legge istitutiva di questa commissione (26. 4. 1964 n. 310) prevedeva, all’articolo 1, la “revisione delle leggi di tutela (in coordinamento, quando necessario, con quelle urbanistiche)”. Una tale previsione faceva prefigurare una sinottica valutazione, da parte del legislativo, della tutela e dell’attività urbanistica: il peso specifico di queste due categorie d’interessi non era, e non è, di certo uguale.
La separazione, conseguenza del nuovo regolamento, tra tutela territoriale e musei accresce le difficoltà che si frappongono sia all’applicazione della prima sia alla ricerca scientifica da parte dei funzionari, non solo delle soprintendenze, ma anche dei musei.
L’applicazione della tutela, dovrà, d’ora in poi, superare i pesanti effetti negativi su di essa che hanno le innovate procedure della conferenza dei servizi, quelle, altrettanto rinnovate de impervie, del “silenzio assenso” e le sempre più severe limitazioni di risorse finanziarie e di personale. Ove non bastasse, agli ostacoli appena segnalati si aggiunge il bizantinismo delle norme regolamentari per missioni d’ispezione fuori sede, attività essenziale per la tutela territoriale. Con il nuovo regolamento non sarà più possibile seguire l’intero percorso che, dallo scavo, portava alla condivisione pubblica di quanto ritrovato grazie ad un’esposizione museale oppure anche ad una mostra temporanea. Quanto sarà rinvenuto rimarrà, d’ora in poi, nascosto all’opinione ed alla coscienza pubblica in qualche magazzino, in attesa di essere studiato e poi pubblicato. Così che, in seguito, possa essere “valorizzato” in un museo.
Da parte di taluno si è voluto affermare che la divisione dei compiti, la tutela alle soprintendenze, la “valorizzazione” ai musei, favorirà una maggiore vigoria operativa a vantaggio di ognuna delle due funzioni, in quanto si attuerà una più approfondita specializzazione che non potrà che essere positiva. Senza negare, in generale, la bontà delle specializzazioni, occorrerà tuttavia anche chiedersi a quale scopo mirano le diverse attività e funzioni pubbliche relative ai Beni culturali. La dizione dell’articolo 9 della Costituzione è, come non altrimenti potrebbe essere, ampia e di valore generale: ma, comunque, prescrive, nel suo 2° comma, che si attui la “tutela” del “patrimonio storico ed artistico”. E tale prescrizione non può non collegarsi strettamente alla previsione, contenuta nel 1° comma dello stesso articolo: “(La Repubblica) promuove lo sviluppo della cultura” . Definire la “cultura” richiederebbe spazio ben maggiore di quello che si intende qui occupare (e conoscenze teoriche ben più avanzate di quelle che si riconosce chi scrive). Epperò sarà pur legittimo distinguere “cultura” da “valorizzazione”, più o meno bieca: esempi della quale ultima, sempre più numerosi, vediamo fiorire attorno a noi. Tanto più che la generale decadenza della formazione scolastica, in specie per quanto riguarda i saperi umanistici e storici, rende i cittadini sempre più sprovvisti di strumenti di base, ermeneutici ed interpretativi, sui quali imbastire un dialogo con gli archeologi e gli storici specialisti.
Decrementandosi, di conseguenza, la padronanza a comprendere, quindi a condividere, da parte dei cittadini da un lato, e dall’altro scemando la qualità culturale delle attività di “valorizzazione” non sarà difficile prevedere che, in breve volgere di tempo, la già poco amata attività di tutela territoriale sarà ancora di più odiata, ostacolata, ridotta a parvenza di formale ossequio a quel trascurato articolo della Costituzione.
All’estensore di questa nuova riforma del ministero dei Beni culturali italiano è doveroso riconoscere di aver compiuto (si teme: in maniera inconsapevole) una svolta storica rispetto ad un percorso, di crescita e di generale acquisizione di una sempre maggiore complessità, iniziato il 2 novembre 1789, quando l’Assemblea costituente francese decise di mettere a disposizione della nazione i beni del clero e della nobiltà, i quali sono stati quindi inventariati, catalogati e conservati, così da poter essere distribuiti con equità in tutti gli ottantatre dipartimenti nei quali, nel frattempo, si era provveduto ad articolare l’intero territorio nazionale. Successivamente, le vittorie militari, prima repubblicane poi napoleoniche, portarono all’accrescimento del museo del Louvre come simbolo del potere raggiunto. Sono proprio i forzosi trasferimenti di statue, dipinti, volumi, strumenti scientifici che il trattato di Tolentino ha previsto a danno del patrimonio pontificio a convincere Pio VII di incaricare Carlo Fea dell’onere di scrivere la prima legge moderna sulle antichità e belle arti, sui modi di amministrarle e sugli uffici che ne assumevano la responsabilità, il Chirografo del 1 ottobre 1802. Questo testo fondante, ripreso tal quale dall’editto del Cardinal Camerlengo del 7 aprile 1820, confluisce successivamente nella legge 20 giugno 1909 n. 364, la quale forma la base della legge 1. 6. 1939 n. 1089, a sua volta costitutiva del vigente Decreto Legislativo 22 gennaio 2004 n. 42.
Lungo tutto questo percorso, in Italia, anche prima dell’unificazione politica e dell’istituzione della fiorelliana Direzione generale delle Antichità e Belle arti, il rapporto fra musei e scoperte verificatesi nel territorio è sempre stato assicurato. Così, ad esempio per quanto riguarda le tombe a camera di Canosa, si sono avute attività di ricerca su di esse da parte di funzionari di museo di Napoli, non limitate alla ricerca di begli oggetti da esporre, ma completate da rilievi ed osservazioni quali potevano essere nel corso della prima metà del XIX secolo. Come già anticipato, è con Fiorelli che tale rapporto viene codificato e reso istituzionale all’interno della nuova organizzazione che il Paese, dopo il completamento della propria unificazione politica, si era data per le Antichità e Belle arti.
Negli altri Paesi, successivamente, e negli Stati Uniti l’assoluta dominanza che lo studio dell’arte classica aveva, e continua ad avere, all’interno della generale ricerca sull’antichità, anche in quanto trainato dalla tradizionale supremazia della filologia greca e latina, fece sì che i musei archeologici fossero rivolti esclusivamente alla conservazione di oggetti antichi quasi in assoluto provenienti da acquisti, più o meno legali, compiuti in Paesi mediterranei. L’attenzione a quanto si celava di antico sotto terra, vivace in Francia e nei diversi Stati germanici fin dal XVII secolo, non supera il livello dell’erudizione locale, senza attentare al solitario primo posto ricoperto dall’arte classica.
Una tale separazione ha portato, in tempi più recenti, all’applicazione archeologica da parte di antropologi nel campo delle culture indigene, pre- e post-colombiane, del continente americano (e, successivamente, anche in altri); e, nei Paesi europei, alla netta divisione disciplinare tra archeologia greca e romana, da un lato, e “Antiquités nationales” e dizioni consimili, dall’altro . La Grecia, pur con il ritardo derivante dalla sua tardiva organizzazione istituzionale, ha seguito da presso il modello italiano di collegare fra loro tutela del territorio e gestione dei musei.
Da queste schematiche annotazioni risulta che i musei sono separati dalla tutela del territorio lì dove quest’ultimo è ritenuto non d’interesse nei riguardi delle produzioni artistiche greche e romane: nelle quali solamente era riconosciuto, in quei Paesi e all’epoca della rispettiva organizzazione museale, essersi materializzata l’autorità incontrastata della cultura classica.
Senza alcuna motivazione d’ordine culturale, il nostro ministro pro tempore ai Beni culturali nel separare i musei dalla tutela del territorio storico tenta di imitare Paesi, come l’Inghilterra e gli Stati Uniti, nei quali la conformazione degli istituti museali e degli organi che tutelano il territorio storico è tutt’altra dalla nostra, in quanto rispondente a criteri culturali diversi da quelli tradizionali in Italia. Né, a favore di questa riforma, può invocarsi l’opportunità, o la necessità della sospirata innovazione (?) dopo più di un secolo di vigenza del precedente ordinamento. I criteri che motivarono in Fiorelli di collegare strettamente fra loro tutela del territorio e gestione dei musei rispondevano con aderenza completa e parallela alla realtà della stratificazione storico-culturale che ha conformato il (paesaggio del) nostro territorio. Dal quale, proprio in grazia alla finora vicendevole collaborazione tra tutela e musei, non si sono recuperati solamente reperti greci e romani, ma tutti quelli che documentano le diverse culture che, nelle successive epoche, si sono manifestate attive. Così che i nostri musei, come i nostri territori, costituivano, finora, il fedele specchio delle vicende storiche e culturali che si sono manifestate nel nostro Paese durante l’antichità e che si sono sedimentate nel territorio (o nel paesaggio, se si preferisce).
È legittimo chiedersi quale obiettivo abbia avuto intenzione di perseguire l’estensore della presente riforma, visto che ad essa manca l’unica motivazione che l’avrebbe potuta giustificare: e, cioè, la completa scomparsa di ogni manufatto antico dal nostro sottosuolo. Situazione ben lungi dal verificarsi, dato che assai di frequente le cronache giornalistiche riportano di nuovi, sensazionali ritrovamenti di natura archeologica. Potrebbe sospettarsi che tale esaurimento del “nostro petrolio” sia l’esito auspicato dal legislatore, così da togliere un impervio ostacolo ad attività edificatorie e di infrastrutture.
Verso tale esecrabile scopo sembra anche concorrere il pesante declassamento dei soprintendenti per quanto riguarda la loro retribuzione: in una società nella quale il livello della remunerazione corrisponde al valore del lavoro compiuto tale declassamento assume un significato punitivo assai forte. Tanto più se la così decurtata retribuzione viene messa a confronto con quella assegnata ai direttori dei musei autonomi: i quali, anche sotto questo profilo, sono quindi additati alla pubblica opinione come i più importanti, se non gli unici, operatori dei Beni culturali.
A quanto sembra legittimo dedurre, un obiettivo potrebbe consistere nella auspicata auto-sostenibilità economica della nuova organizzazione: in quanto i Musei, tramite le attività di “valorizzazione” realizzate dovrebbero provvedere al sostegno almeno della maggior parte dei propri costi . È di certo troppo presto per poter valutare se un tale obiettivo si porrà a degno confronto delle migliori performances nel campo finora segnalate. A giudicare, tuttavia, dalla miseranda fine nella quale si sono imbattute tutte le norme che intendevano incrementare la contribuzione finanziaria da parte di privati non c’è da essere molto ottimisti. Con l’augurio di essere smentiti ben presto.
Di certo, non è stato obiettivo della riforma la crescita culturale e della consapevolezza critica dei cittadini nei confronti delle antichità e della loro tutela nel rispettivo contesto territoriale. A ciò, invece, dovrebbe tendere “la visione unitaria del sistema complesso in cui intervengono questi tre momenti (scil.:gestione, valorizzazione, conservazione e tutela) che investono il presente e il futuro del patrimonio culturale” . In ciò, secondo Manacorda, non “conta… tanto l’unità delle funzioni” , in quanto gli attori possono anche essere diversi fra loro: purché, appunto, compresi in un unico quadro. Un tale generoso allargamento non sembra aver trovato, finora, risposta: se non in una giustapposizione di “eventi”, resi possibili più da accordi politici che da una serrata costruzione di quella auspicata “visione unitaria”. Un fallimento del genere deriva dal profondamente diverso scopo degli attori che si esibiscono sul palcoscenico della “valorizzazione”: le soprintendenze, che osservano sia le leggi sia gli interessi scientifici e culturali; gli enti locali e territoriali, che perseguono il consenso dei propri elettori.
Diverso, si potrebbe presumere, sarà l’effetto della prevista divisione tra uffici dipendenti dallo stesso ministero, in via teorica rivolti allo stesso scopo. Ma proprio la stessa riforma differenzia gli scopi operativi delle soprintendenze da quelli dei musei. Come si è già accennato, le prime applicheranno le leggi vigenti a proposito della tutela; i secondi cureranno la “valorizzazione”. Se la tutela nasce e si riversa nella conoscenza, quest’ultima, per aprirsi in senso sociale rivolgendosi a quanti non siano specialisti (cioè: all’assoluta maggioranza dei cittadini), deve tradursi da disciplina, praticata da pochi esperti, in “valorizzazione”, rivolta ai molti. Come quest’ultima funzione potrà manifestarsi in forme e in contenuti metodologicamente soddisfacenti se quanti la praticano non hanno avuto parte nelle attività, preordinate, di conoscenza e di tutela ?
Si obietterà che si può attivare una giustificata e soddisfacente “valorizzazione” di contesti riportati alla luce da decenni, se non da più tempo ancora, dividendo di necessità coloro che li conobbero e li tutelarono da coloro che li valorizzano. Ma non è difficile la risposta: la riforma attuale svolge le funzioni di Atropos, pur senza essere frutto dell’unione di Zeus e di Themis (HESIOD., Theog. 901-905). E, per venire ai nostri giorni, si ripete che la “valorizzazione” è possibile solo dopo aver guadagnato conoscenza: come potranno conseguirla coloro che hanno tutelato, se il loro operare sarà reso sempre più difficoltoso dalle norme alle quali si è già fatto riferimento, dalla sempre più accentuata separazione tra il proprio operare e la pubblica opinione, dell’inutilità, a legittimi fini di carriera, di sottoporsi alla fatica di redigere un testo critico? E, a maggior ragione, come potranno conoscere coloro che operano in sedi diverse da quelle nelle quali si attua la tutela territoriale?
Sia pure in maniera assai schematica si presume di aver argomentato alcuni motivi che fanno ritenere non rispondente agli interessi pubblici di crescita della consapevolezza culturale e critica dei cittadini, così come prescritto dall’articolo 9 della Costituzione, la recente riforma del ministero dei Beni culturali. Nella conformazione della quale si scorge, per di più, una profonda contraddizione metodologica nei riguardi di quella visione “olistica”, attualmente propugnata dai più accesi sostenitori della stessa riforma. Ben poco di “olistico” ha l’attuale ritagliata frammentazione del territorio storico, in origine unitario, alla quale assistiamo ad esempio per Roma, Napoli, Pompei, Sibari. E, se passiamo al livello metodologico, non dovremmo dimenticare che la visione “olistica” unifica nella sfera del paesaggio la tutela dei Beni culturali che in esso, topograficamente e stratigraficamente, sono compresi. Ebbene, per quale motivo la stessa riforma non ha inciso sul rapporto, assai squilibrato, tra competenze urbanistiche regionali e residue competenze paesaggistiche statali? Se veramente è il paesaggio la chiave di lettura sia della storia sia delle materialità conformate dalle culture che si sono susseguite nel tempo, perchè di esso non si è impostata l’unica difesa possibile: riportarne la tutela al centro, allo scopo che i corposi interessi locali non possano prevalere? Ci si rende perfettamente conto dell’ingenua malizia di quanto appena scritto: ma non sarà invano se sarà utile a distinguere tra vera e falsa tutela della storia, dell’arte, del territorio, del paesaggio.
L’unico elemento olistico che domina il campo è l’unificazione in un solo ufficio delle tradizionali branche dei differenti saperi (archeologia, storia dell’arte, monumenti), dai quali logicamente discendevano differenti prassi. la nuova, ed olistica, soprintendenza sarà diretta da un dirigente che non possiede, e non per sua colpa, gli strumenti essenziali per giudicare nel merito quanto, per due delle tre branche di Beni dei quali è responsabile, gli verrà presentato alla firma. Se firma, correrà il rischio di sbagliare; se non firma, la tutela rimarrà bloccata. Non c’è che dire: è un ulteriore ostacolo all’operatività delle soprintendenze, proprio come a suo tempo auspicava l’ex sindaco di Firenze.