Nel 2014, mentre il Ministero dei beni culturali stava approntando una serie di discutibili provvedimenti e riforme, è passato sotto silenzio il cinquantesimo anniversario della Commissione Franceschini. Per gli addetti ai lavori non ci sarebbe da aggiungere molto: è stata la più ampia e qualificata discussione sulla situazione dei beni culturali in Italia. E sottolineo “beni culturali” perché proprio in quell’occasione entrò nella nostra legislazione l’espressione già diffusa in ambito internazionale e si fissò il nuovo concetto estensivo di cultura come testimonianza di civiltà. Fino a quel momento si parlava di “antichità e belle arti” e oggi, non si sa se per nostalgica romanticheria o beata ignoranza, si è tornati a usare quelle desuete parole, scalciate via da un secolo di riflessioni estetiche, critiche e metodologiche.
La Commissione era stata istituita per proporre una riforma legislativa complessiva partendo dalla grave situazione delle “antichità e belle arti”, collegandole al settore delle biblioteche e ricongiungendo pure il mondo degli archivi, ma soprattutto allargando la necessità di intervento alle città, al paesaggio e a tutte le espressioni della cultura, superando vetuste gerarchie e azioni parcellizzate. L’altro obiettivo era l’adeguamento delle dotazioni finanziarie e l’assunzione di personale qualificato (mentre noi oggi siamo perfino scesi molto al di sotto di quelli che erano stati gli auspici della Commissione in un contesto in cui ancora era agli inizi la cultura di massa).
Compiuti i suoi lavori tra il 1964 e il 1966, la Commissione presieduta dall’onorevole Francesco Franceschini, pubblicò infine tre ponderosi volumi di Atti che raccolgono una vastissima mole di documenti, leggi, pareri, articoli, fotografie. Quei materiali sintetizzano le riflessioni più avanzate ma anche le contraddizioni di un Paese diviso tra gli effetti del boom economico, la cementificazione selvaggia, lo spaesamento della nuova emigrazione dal sud, i fermenti di una rivoluzione giovanile che stava per esplodere, il rinnovamento conciliare della Chiesa, le sperimentazioni dei movimenti artistici che volevano spazzare via ogni legame con le tradizioni millenarie.
Alla fine dei lavori, l’introduzione di Franceschini ammetteva, “attraverso un’analisi minuziosa e concreta dei fatti, che la situazione è molto più allarmante di quanto fosse dato conoscere o prevedere”. Poi infine chiariva, in modo inequivocabile, che troppo spesso le motivazioni economiche e i conflitti di competenza tra Stato, enti locali e privati “prevalgono purtroppo sui doveri primari di conservazione, di studio e di pubblico godimento dei Beni stessi, intesi come espressione di coscienza civile e come fattore di progresso intellettuale e sociale”.
Come siano poi andate le cose è noto, le proposte della Commissione rimasero in gran parte lettera morta, anche se continuarono ad agire nelle battaglie della società civile e nella formazione dei funzionari; si fecero altre due Commisisoni, poi un Ministero senza portafoglio, infine nacque il Ministero dei beni culturali e ambientali, perdendo quasi subito quella connotazione tecnico-scientifica che era la filigrana residua della Commissione Franceschini, arrivando poi, tra tagli e burocratizzazione, fino a oggi e alla nuova denominazione “dei beni e delle attività culturali e del turismo”.
Oggi il ministro è Dario Franceschini e anche lui si è dovuto e voluto esercitare nel riformare le riforme azzoppate dei suoi predecessori. Quel che ne sta venendo fuori ha qualche elemento buono, inzuppato in un colabrodo di pasticci e rattoppi dettati da economia di spesa, smantellamento della funzione pubblica, illusioni di taumaturgico managerismo, sfruttamento del precariato. A esemplificare le tante perplessità che suscita questa ennesima riforma basterebbero le dieci domande che l’Associazione Bianchi Bandinelli ha appena rivolto al ministro. Se la Commissione Franceschini fu uno straordinario crogiolo di idee senza riforma, il frenetico rinnovamento di Dario Franceschini rischia di essere una riforma senza idee, o meglio piena di idee bislacche e incomprensibili. Questo avviene quando le riforme non sono il prodotto di un’ampia riflessione che rispecchi veramente sia gli sviluppi metodologici delle singole discipline sia i mutamenti profondi della società.
Del resto la Commissione Franceschini, già nel 1967, aveva messo in guardia contro le leggi di tutela che vengono catapultate dall’alto, senza vero e profondo spirito democratico, percepite come negatrici invece che come “tutrici della libertà di tutti e di ciascuno”; ne deriva che così si spezza sul nascere ogni efficacia legislativa e di riforma perché si blocca “quella collaborazione coi pubblici poteri che costituisce invece il segno infallibile di una vera democrazia”. C’è dunque una undicesima domanda che vorrei porre al ministro Franceschini: è sicuro che la sua riforma verrà ricordata dai posteri, diciamo tra 50 anni, come un grande momento di coscienzioso e partecipato rinnovamento e non piuttosto come la lastra tombale del suo stesso Ministero?