di Lucinia Speciale
Pubblichiamo l’introduzione di Lucinia Speciale al convegno “Taranto, la città, la storia”, svoltosi a Taranto il 20 gennaio 2017
Vorrei anzitutto ringraziare, a nome dell’associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, Franco Blandino, che ci ha generosamente accolto nel suo studio, che è anche la sua casa, regalandoci una straordinaria lezione di storia dell’urbanistica. Un pensiero altrettanto grato va al piccolo nucleo di persone che si sono molto impegnate per rendere possibile questa iniziativa: Roberto Giannì ed Enrico Grifoni, i nostri giovani interlocutori tarantini: Salvatore Romeo e Stefania Castellana, che hanno assicurato all’incontro di questo pomeriggio la massima attenzione, il teatro Tatà che ci ospita.
L’associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli nasce alla fine del 1991 da un progetto comune di Giulio Carlo Argan e Giuseppe Chiarante con due finalità: ricomporre la frattura – evidentissima oggi più di allora – tra funzionari della tutela e universitari; offrire spunti di riflessione e suggerimenti all’attività legislativa della formazione politica, il PCI, del quale gli stessi Argan e Chiarante erano ancora entrambi parlamentari nella commissione cultura del Senato.
Giulio Carlo Argan, come molti dei presenti sanno, è stato uno dei maggiori storici dell’arte del Novecento italiano, più esattamente uno dei suoi capiscuola, e uno dei non moltissimi che nell’arco di quel secolo abbiano avuto interessi di studio e relazioni internazionali, legati soprattutto a una visione non provinciale dell’arte contemporanea. Taranto per un certo numero di anni è stata la sede di un importante concorso di arte contemporanea che qualcuno dei relatori certamente avrà modo di ricordare.
Può sembrare curioso che uno storico dell’arte moderna e un critico – come si diceva allora – militante abbia scelto di intitolare un centro di riflessione storico-culturale e politica a uno studioso di arte antica, come Ranuccio Bianchi Bandinelli, e non a uno storico dell’arte che gli era certamente più affine per interessi di studio, come Lionello Venturi, che era stato antifascista e al quale lo aveva legato una lunghissima amicizia.
Possono forse spiegarlo alcune considerazioni contenute in un suo ricordo dello stesso Bianchi Bandinelli, scritte nel 1979 circa un anno dopo la conclusione del suo mandato di sindaco nella prima giunta di sinistra che ha governato la città di Roma: “Pensava che soprattutto era importante mantenere vivo lo spirito della ricerca: per conservare le cose bisogna conservare la mentalità che vuole conservate le cose. L’importante era non rompere l’unità teorico-pragmatica della scienza. Il teorico deve sapere discendere alle cose se vuole che poi dalle cose si possa risalire al grande disegno storico e alla teoresi, magari alla filosofia dell’arte. Mi sovvenni di Lui e del suo impegno pratico, e della serenità e dello spirito con cui lo adempiva, quando imprevedutamente fui fatto sindaco di Roma e mi trovai travolto in una valanga di cure che non avevano niente a che fare con i miei studi. Mi accorsi che non erano poi tanto estranee, forse niente è estraneo alla cultura: cercare di tenere pulita Roma (invano, purtroppo) è come nettare un’opera d’arte imbrattata. Oggi rifletto a molte strane coincidenze del mio destino col suo e naturalmente anche alla comune scelta politica. Nulla di casuale: tutt’e due ci eravamo formati nella tradizione della scuola viennese di storia dell’arte, dove si partiva dalla scheda per arrivare al trattato, ma senza mai perdere di vista la cosa artistica, il suo essere un manufatto soggetto ai guasti del tempo. Studiare la storia dell’arte era lo stesso che prender cura delle cose, besorgen”.
Mettere insieme la ricerca, il prendersi cura del patrimonio e l’impegno civile. In queste parole, che sono del 1979, ci sono gli ultimi anni di Argan, il suo lungo impegno politico nel gruppo parlamentare del Partito Comunista Italiano poi PDS, la breve esperienza come ministro del Governo Ombra e la fondazione della Bianchi Bandinelli che è di 25 anni fa.
Questo incontro, che apre le nostre iniziative del 2017 è il primo di un certo impegno che la Bianchi Bandinelli organizza fuori da Roma, ma non il primo in assoluto fuori sede, siamo stati a Firenze e soprattutto a l’Aquila, dove abbiamo seguito con particolare attenzione la fase del post terremoto, cogliendone precocemente i molti elementi critici, molto prima che si aprissero le inchieste e le manifestazioni pubbliche culminate nella marcia degli storici dell’arte per la ricostruzione de L’Aquila, organizzata il 5 maggio del 2013 da Tomaso Montanari. Lo ricordo non tanto per rivendicare un primato: le buone idee sono di tutti. Del resto, la Bianchi Bandinelli è una delle realtà associative che hanno dato vita al coordinamento di Emergenza Cultura, di cui lo stesso Montanari è stato promotore. Mi preme piuttosto sottolineare sino a che punto l’attenzione al destino di un centro storico appartenga allo spirito con il quale la Bianchi Bandinelli ha operato a partire dalla sua fondazione, riprendendo un pensiero di Argan.
Giulio Carlo Argan è stato uno dei non moltissimi che abbiano considerato un tema di studio da storici dell’arte non solo l’architettura ma anche la storia e lo sviluppo della città, sostenendo che all’edilizia dei centri storici dovessero applicarsi i principi del restauro scientifico. Le sue prime riflessioni in proposito sono degli anni Cinquanta, molto prima che al problema del concreto rapporto tra centro e periferia dovesse dare una risposta da sindaco di Roma.
Alla salvaguardia del centro storico di Taranto Argan si sarebbe interessato in più occasioni, indicando lucidamente la necessità che dovesse essere condotta come il recupero di un contesto storicamente complesso. A seguito di uno degli incontri preparatori a questo incontro, dall’archivio storico del “Gruppo Taranto“ è emersa una preziosa lettera rivolta ad Antonio Rizzo, nella quale Argan raccomanda che al piano Blandino da poco approvato si desse “sollecita e soprattutto integrale attuazione” (il sottolineato è originale, ndr). (http://www.bianchibandinelli.it/2017/01/16/quando-argan-difendeva-il-piano-per-taranto/).
È utile richiamare, a questo proposito anche quanto scrive un paio d’anni prima in un articolo apparso su un numero de La voce del popolo del 1969: “La politica urbanistica italiana è simile a quella di colui che possedendo una macchina in grado di funzionare, la vendesse a peso di metallo, pezzo per pezzo” e ancora ”il pensiero di salvare alcuni edifici monumentali e reinserirli in un contesto assolutamente diverso e incongruo è da escludere”. (devo la lettura dell’originale alla cortesia di Enrico Grifoni).
Rileggendo queste note si comprenderanno le preoccupazioni che hanno salutato il “Concorso Internazionale di Idee per la definizione del Piano di Interventi per il recupero, la riqualificazione e la valorizzazione della Città Vecchia di Taranto”, bandito da Invitalia nel giugno 2016: un’operazione che sembrerebbe preludere al definitivo accantonamento del piano Blandino e che ha rafforzato la nostra intenzione di propiziare una riflessione pubblica su Taranto. Di questo concorso sono stati annunciati ma non si conoscono ancora gli esiti.
Il caso Taranto è significativo per molte ragioni. Negli anni in cui si ragionava sul destino del suo centro storico Taranto ha conosciuto anche l’avvio di un importante insediamento industriale: la fondazione dell’impianto siderurgico che oggi rappresenta l’identità prevalente di Taranto è del 1965. Oggi quell’opzione è in qualche modo alla fine di un ciclo. È ormai opinione comune che il futuro della città non possa più essere affidato solo alle attività industriali. L’interesse a “valorizzare” il tessuto edilizio storico e la vocazione turistica di Taranto nasce da questa consapevolezza. In questo processo assume un ruolo chiave il rapporto che la città saprà instaurare con il suo patrimonio storico. Nella riorganizzazione che ha investito il Ministero per i Beni, le Attività Culturali e il Turismo, la città di Taranto rappresenta per molti aspetti un caso pilota, soprattutto per il Sud. La separazione del MARTA dagli uffici territoriali del ministero e lo spostamento della Soprintendenza archeologica a Lecce ha anticipato di qualche mese la creazione delle soprintendenze miste, determinando un’inedita separazione tra istituzioni museali e centri della tutela attiva sul territorio. Al fondo di questa riorganizzazione c’è la convinzione, dichiarata, che il patrimonio storico del paese debba essere “messo a reddito”. È condivisibile questa scelta e, soprattutto, funzionerà questo modello per Taranto?