di Pier Giovanni Guzzo
Le recenti cronache giudiziarie relative al Teatro grande di Pompei hanno creato scalpore: per il malcostume evidenziato dall’accusa, per l’entità delle somme che l’accusa chiede di pignorare. Qui si vorrebbe, invece, mettere in evidenza una diversa categoria anch’essa ben presente nell’affaire: quella politica.
Una relazione della Corte dei Conti centrale nell’estate 2010 aveva ritenuto atto puramente politico il commissariamento dell’area archeologica di Pompei: di conseguenza la stessa Corte non poteva esprimere la propria valutazione sull’operato dei commissari nel biennio 2008-2010. Adesso, la stessa Corte dei Conti sanziona quei lavori (e quelle spese), che ritiene essere stati non conformi al mandato ricevuto dai commissari. In parallelo un’azione giudiziaria penale sta procedendo sull’ipotesi di violazioni di legge sull’assegnazione dei lavori.
In ambedue i casi occorre attendere l’esito degli itinera giudiziari per poter identificare i colpevoli e valutare la pena loro eventualmente inflitta. Ma fin d’ora si può commentare, senza essere tacciati di giustizialismo: perché un commissario all’emergenza (?) è stato convenuto fiscalmente se il suo operato, in quanto rientrante nella discrezionalità politica, era stato in precedenza dichiarato non valutabile? C’è da immaginare, non avendo letto la requisitoria della Procura contabile, che la Corte dei Conti abbia ritenuto alcune azioni del commissario non conformi al mandato politico ricevuto e, di conseguenza, non rientranti nella sfera della discrezionalità.
I mezzi di comunicazione hanno informato che oggetto dell’indagine è stato il “restauro” del Teatro grande. In esso il teatro San Carlo di Napoli si è prodotto, non solo ovviamente. In quel periodo il teatro San Carlo di Napoli era commissariato dal capo di gabinetto pro tempore del ministero per i Beni e le attività culturali, su proposta del quale il presidente del Consiglio dei ministri aveva nominato i commissari di Pompei. La connessione, certo non completamente documentabile, tra questi fatti porta a un’interpretazione politica dell’accaduto: e a quella declinazione politica definibile come arroganza.
Dal commissariamento al “restauro” del Teatro grande è stata protagonista l’arroganza politica, sprezzante del merito tecnico della conservazione dell’antica città, rivolta alla cura di quanti facevano parte dello stesso circolo, irridente della pubblica opinione che nutriva di propaganda e proclami. E la si avverte ancora oggi nell’autodifesa dell’indagato: che non riesce a spiegarsi come si sia osato dubitare del suo operato.
Ed altrettanto la si avverte nella riforma in atto dei Beni culturali: nella separazione tra musei e tutela del territorio e nella mortificazione di archeologi e storici dell’arte nei confronti dei presunti manager. Anche se proviene da una direzione diversa, la musica che si sente è sempre la stessa.
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