La proposta di legge alla cui redazione si è impegnata l’associazione Bianchi Bandinelli (con i contributi non marginali di chi sta nella nostra associazione) ha l’ambizione, io credo non sbagliata, di costituire l’adempimento a sessant’anni di distanza (e ovviamente tenuto conto delle non poche novità istituzionali, come innanzitutto l’attuazione dell’ordinamento regionale e della riforma costituzionale del Titolo V) della rivendicazione di quell’“urgente provvedimento di legge generale” che la Carta di Gubbio nella sua formulazione conclusiva aveva indicato come finalità primaria. Se è così, credo che Italia Nostra debba valutare di assumere in proprio quella proposta di legge (già introdotta sia in Senato che alla Camera) e vorrei qui riuscire ad indicare buone ragioni perché l’associazione ne faccia l’obbiettivo a conclusione dei suoi seminari verso il convegno di settembre.
Sono due in sostanza gli intrecciati principi fondanti della Carta di Gubbio, espressione dell’orgoglio urbanistico che aveva allora animato la discussione tra chi si misurava sui problemi della città. L’insediamento urbano storico costituisce una complessa ma unitaria entità, con incisive caratteristiche e valori di cultura che esigono una speciale disciplina conservativa di tutela, necessariamente affidata alla cura propria dell’urbanistica, come elemento non separato ma integrato e partecipe del generale progetto della città contemporanea. Nell’attuazione di questi principi si era cimentato il ministro Fiorentino Sullo (1962) con la sua generosa e sfortunata proposta di legge che aveva messo in diretta relazione funzionale il controllo pubblico della allora necessaria espansione della città (attraverso la costituzione del demanio civico delle aree) e il risanamento conservativo dei centri storico-artistici ed ambientali, contenuto necessario del piano regolatore generale con i suoi vincoli da osservare nelle zone a carattere storico e ambientale. Questa testuale espressione, vincoli senza tempo e senza indennizzo, sarà poi ripresa e salvata in una legge del 1968 ed è diritto vigente. Le dichiarazioni di principio della Commissione interparlamentare di indagine Franceschini (1964 – 1966, essenziale il contributo di Astengo, c’è la sua firma nella mozione conclusiva del convegno di Gubbio), che dovevano valere come proposte per la revisione delle leggi di tutela, riconobbero quali beni culturali ambientali (sono espressioni dettate appunto di Astengo) le strutture insediative urbane che costituiscono unità culturale e testimoniano i caratteri di una viva cultura urbana e dunque postulano, nella loro cura, la competenza delle istituzioni di tutela. Non seguì questa indicazione la legge ponte, la 765 del 1967, che risolse nell’urbanistica, valorizzandola in questa funzione, la disciplina degli agglomerati urbani quando rivestano carattere storico artistico e di particolare pregio ambientale e, nell’adottato modello territoriale per zone omogenee, li riconosce come zona A, mentre l’attuativo decreto interministeriale dell’anno dopo (n. 1444) li affida a una disciplina prevalentemente conservativa con le prescrizioni di limiti di altezza, densità edilizia di distanza tra i fabbricati. La legge ponte tuttavia avverte che si tratta di materia che impegna la competenza, quindi concorrente, della istituzione della tutela, resa perciò partecipe di essenziali atti di pianificazione, sia nella formazione dei piani regolatori generali (per iniziativa del ministero della pubblica istruzione il decreto ministeriale di approvazione dei piani può introdurre le modifiche di ufficio riconosciute indispensabili per assicurare la tutela dei complessi storici monumentali e archeologici), sia nella stessa gestione della disciplina urbanistica, attribuendo ai soprintendenti non marginali attribuzioni consultive, come la definizione del perimetro degli abitati e, all’interno di quello, del centro storico, esercitate anche sui piani particolareggiati e perfino sui piani di lottizzazione. Attuato l’ordinamento regionale e conferita alle regioni potestà legislativa e funzioni amministrative nella materia urbanistica, vi furono comprese le attribuzioni già esercitate dagli organi statali della tutela che sono rimaste assorbite e quindi in pratica annullate nel governo dell’urbanistica. Un sistema rigidamente binario dove è negata ogni comunicazione tra le due parti, esclusi del tutto ministero beni culturali e soprintendenze dalla cura della città storica, che neppure il codice dei beni culturali (2004 – 2008) è stato capace di riconoscere quale bene culturale in sé, come aveva inascoltata chiesto Italia Nostra. Mentre ancora e soltanto nella legge ponte e nelle prescrizioni attuative del decreto 1444 sono stati colti, nel difetto di una apposita legge cornice in questa materia, i principi fondamentali di orientamento alla potestà legislativa delle regioni. Le quali se ne sono sentite progressivamente sciolte, nella indifferenza quando non nell’incoraggiamento del governo (che ha lasciato passare la eversiva, incostituzionale legge urbanistica – n.24 del 2017 – della regione Emilia Romagna) e del parlamento che con la legge (2013) del fare (del mal fare) ha dato facoltà alle regioni di derogare alle prescrizioni dello stesso decreto 1444, così svuotato della riconosciuta carica di veicolo di principi, anche nelle sue caute disposizioni sulle trasformazioni conservative (singolare ossimoro). Sicché è potuto accadere, lo segnalo perché è sorprendente vicenda qui a due passi da noi, che il Comune di Castelfranco Emilia sia stato legittimato a decretare, in variante alla disciplina conservativa del suo piano regolatore, la demolizione del vasto isolato delle case operaie insediato nel centro storico all’inizio del Novecento (con la benedizione – poteva mancare? – della soprintendenza).
Ebbene, nella consapevolezza di questo allarmante processo degenerativo, la proposta di legge che stiamo esaminando affronta con risolutezza il compito, eluso dagli anni 60 del Novecento, di tradurre in termini normativi le acquisizioni della cultura sulla città storica come monumento unitario nella complessità dei suoi valori, riconosciuta esplicitamente e a pieno titolo partecipe del patrimonio storico e artistico della Nazione, insomma una doverosa misura di attuazione costituzionale. E insieme si impegna a risolvere l’insuperabile nesso con il governo del territorio e con la potestà legislativa delle regioni al riguardo, concependo il riconoscimento normativo della qualità di bene culturale (specialissimo, di insieme) non come condizione di isolamento dal generale contesto urbano, ma al contrario come fattore della più appropriata partecipazione del nucleo storico dell’insediamento, con i suoi irrinunciabili caratteri, contenuti e funzioni, al progetto complessivo della città di oggi.
La proposta di legge muove dalla obbiettiva identificazione della città storica, operata attraverso il riferimento alla rappresentazione del nuovo catasto urbano come fissata generalmente nel paese con la fondamentale ricognizione del 1939, così sfuggendo alle insidie di soggettivi e mutevoli apprezzamenti discrezionali. Certo, un criterio convenzionale, ma non arbitrario, che fissa una riconoscibile fase cruciale nella storia dell’insediamento urbano alla vigilia del conflitto e sicuramente considerata nella elaborazione della cultura urbanistica di quegli anni che trovò espressione nella fondamentale, gloriosa, legge del 1942 (non ancora saputa superare). Un riconoscimento che non esige mediazioni applicative attraverso attardanti procedimenti amministrativi, come diretto effetto della legge, sul modello che si è rivelato efficace nella analoga ricognizione delle fondamentali strutture fisiche portanti del territorio/paesaggio della legge voluta dallo storico Galasso, allora sottosegretario al ministero beni culturali, nel 1985.
L’art.1 è il manifesto dell’insediamento storico detto con la cultura che echeggia la definizione cattaneana della città “considerata come principio ideale delle storie italiane” e subito indica, strumenti al fine di assicurare conservazione e pubblica fruizione, i modi della valorizzazione e della promozione dell’uso residenziale sia pubblico che privato, con i relativi servizi anche di artigianato. L’art.2 rende esplicito, con il richiamo all’art. 9 costituzione (dunque questa è legge di attuazione costituzionale) e alla legislazione esclusiva dello Stato nella materia dei beni culturali, l’assunto che gli insediamenti urbani storici stanno nel patrimonio storico e artistico della Nazione come beni culturali di insieme e dunque ad essi si addicono le misure di protezione e di conservazione dettate dal codice dei beni culturali e del paesaggio, che il comma 2 più specificamente ribadisce come “disciplina conservativa del patrimonio edilizio pubblico e privato, con divieto di demolizione e ricostruzione e di trasformazione dei caratteri tipologici e morfologici degli organismi edilizi e dei luoghi aperti, di modificazione della trama viaria storica e dei relativi elementi costitutivi, con divieto altresì di nuova edificazione anche degli spazi rimasti liberi; sono esclusi gli usi non compatibili ovvero tali da recare pregiudizio alla loro conservazione, a norma degli artt. 20 e 170 del Codice beni culturali e del paesaggio”. Dunque una rigorosa protezione assistita da un severo sistema sanzionatorio.
Al riconoscimento degli insediamenti urbani storici come beni culturali non consegue, non può funzionalmente conseguire, e più sopra ne abbiamo anticipato la ragione, la sottrazione della relativa tutela all’esercizio del governo del territorio e alla potestà legislativa delle Regioni al riguardo, come alla competenza di funzioni amministrative proprie dei Comuni che attengono ad assetto e utilizzazione del territorio (dettate nell’art.13 del t.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, convalidate come loro proprie dall’art.118, comma 2, cost.) e da quel riconoscimento l’art. 3 di questa proposta ricava appunto la articolazione dei principi fondamentali che orientano la legislazione regionale di governo del territorio diretta alla speciale disciplina e individuano nello strumento urbanistico comunale l’istituto operativo della tutela. Che definisce il perimetro dell’insediamento storico quale risulta dal catasto edilizio urbano del 1939, individua edifici e altri immobili in ogni parte del territorio, oltre a quelli già assoggettati alla disciplina del codice, che presentano interesse storico per caratteristiche architettoniche/tipologiche in sé o in relazione al contesto dell’insediamento, assoggettati alla medesima disciplina conservativa; promuove le destinazioni residenziali, artigianali e di commercio di vicinato; individua le componenti dell’insediamento storico e dei suoi singoli elementi costitutivi trasformati negli anni successivi al 1939 per i quali in luogo della disciplina conservativa si ponga l’esigenza del ripristino di condizioni di compatibilità e coerenza con il contesto urbano, anche in ragione delle destinazioni d’uso, e a tal fine definisce la disciplina specifica, individuando i criteri di orientamento alla conferma delle trasformazioni intervenute o al ripristino dei caratteri tipologici originari degli organismi urbani/edilizi; prevede, di intesa con l’ufficio territoriale del ministero beni culturali e per esigenze di interesse pubblico, eventuali deroghe alla disciplina conservativa di piano su singoli individuati elementi dell’insediamento storico (opportuno dispositivo che incide sulla assolutezza della norma, garantito nella sua corretta applicazione dalla corresponsabilità dell’ufficio – la soprintendenza – che rappresenta la cura della dimensione nazionale dell’interesse alla tutela (contro possibili estensioni della deroga a fronte di ogni ipotizzabile interesse pubblico, converrà limitarla alla esclusiva esigenza di pubbliche attrezzature di servizio); programma interventi per l’impiego di risorse finanziarie disponibili, e di eventuali stanziamenti integrativi, per il recupero del patrimonio edilizio esistente, finalizzato alla realizzazione di edilizia residenziale pubblica. Rivive così nel nuovo strumento urbanistico comunale la progettazione dell’intervento di edilizia pubblica (i peep oggi desueti) anche per recupero dei tessuti edilizi storici degradati. La legge valorizza insomma lo strumento urbanistico comunale in funzione della tutela dell’insediamento storico riconosciuto bene culturale e quando il piano sia stato dal ministero beni culturali accertato conforme al modello della stessa legge, alla autonomia del comune, responsabile soggetto attivo della tutela (il precetto dell’art.9 cost. anche ai comuni si rivolge), sono rimesse l’attuazione dei progetti in quello strumento previsti e l’abilitazione degli interventi. Una disciplina speciale che l’art.4 definisce sotto il riduttivo titolo di semplificazione amministrativa, in deviazione da quella generale dettata dal Codice che riserva agli uffici centrali e periferici del ministero beni culturali l’amministrazione attiva della tutela del patrimonio storico e artistico. Una riserva che oggi non è più necessitata con l’introduzione nel modificato art.118 cost. del principio di sussidiarietà e qui se ne è fatta a ragione applicazione con l’effetto (non il fine primario della disciplina speciale) di funzionale semplificazione amministrativa. Si è operata, a ben vedere, l’attesa composizione in unità della irragionevole separazione nel vigente sistema binario tra i due sistemi non comunicanti tra loro, quello del governo del territorio e quello della tutela dei beni culturali. Mentre una norma transitoria di completamento disegna il dispositivo di salvaguardia (che impegna anche le soprintendenze) necessario a incentivare l’adeguamento degli strumenti urbanistici comunali.
Infine con l’art.5, certamente il nucleo della legge di straordinaria novità e massimo rilievo politico, lo Stato riconosce come questione nazionale la tutela dell’insediamento urbano storico e assume su di sé il compito di consolidarne e incrementarne la funzione residenziale, impegnando il governo a un piano decennale per l’edilizia residenziale pubblica aperto alla partecipazione delle regioni e perciò definito di intesa con la conferenza unificata. E in questa funzione è innanzitutto utilizzato il patrimonio immobiliare pubblico dismesso (qualificante impiego del così detto – spesso malamente esercitato – federalismo demaniale), mentre ai comuni caratterizzati dal fenomeno dello spopolamento si vogliono destinare risorse per l’acquisto di alloggi da cedere in locazione a canone agevolato e sono definite le condizioni per convenzionare con i proprietari privati il recupero abitativo a canone locativo concordato. Insomma la legge che riconosce l’insediamento urbano storico parte integrante dal “patrimonio” della Nazione, enuncia insieme il progetto politico che affida alla responsabilità dello Stato il compito di promuovere in concreto le condizioni anche economico-finanziarie del ripristino residenziale socialmente garantito, contro gli opposti fenomeni di degrado/abbandono, riserve abitative di lusso, invadenza deformante della ospitalità turistica. Insomma, concludo, a me sembra che in questa definita proposta Italia Nostra ben possa riconoscere soddisfatte le istanze essenziali della propria cultura del centro storico, motivo dominante nel suo impegno civile dalla costituzione in associazione.
Giovanni Losavio.
Bologna, 30 gennaio 2020.
Sala di Ulisse dell’Accademia delle Scienze
Seminario di Italia Nostra
La Carta di Gubbio oggi