In ricordo di Antonio Giuliano, scomparso lo scorso 16 giugno, riportiamo l’intervista pubblicata su Alias n° 14 dell’aprile 2005
Rumori dell’antico
Conversazione con Antonio Giuliano
Un grecista tra siti, fonti digressioni
di Roberto Andreotti e Federico De Melis
La potente economia figurativa dei vasi greci, i campi come mostruoso laboratorio culturali, le città “sincretistiche” tardoantiche, per rilanciare oggi l’Occidente sfiatato. Uscito da una costola di Bianchi Bandinelli, questo inclassificabile e appartato studioso ausculta (non dimenticando mai Leopardi) il mondo greco-romano. E lo volge in conversazione
Una conversazione di viaggi e suggestioni sul mondo antico, con un conoscitore appartato nel suo studio di Campo Marzio; e appartato anche per una forte ritrosia civica di fronte agli esiti nefasti dei nostri Beni culturali. Antonio Giuliano rappresenta un modello storiografico desueto in Italia, incline comè a connettere i dati dellesperienza archeologica (straordinariamente padroneggiati sia nello scavo ma ancor di più nella prospettiva storica) con una curiositas di stampo settecentesco per i risvolti antropologici delle fonti artistiche e letterarie e per la loro riczione a tutto campo: civiltà quotidiana, linguaggi, forme del potere. Una personalissima fusione, insomma, di due maestri: Ranuccio Bianchi Bandinelli e Mario Praz.
F.D.M.
Partiamo da Hierapolis, in Turchia, dove lei ha scavato perla prima volta negli anni cinquanta. Ne approfittiamo anche per fare un excursus sulla storia della mentalità e dunque sul suo rapporto con il Turco.
Giuliano
Sì, cominciai nel 1955. Soprattutto ebbi un rapporto con gli scavatori, quindi persone molto umili, e quindi, come tali, molto care e per le quali si diveniva facilmente quasi punto di riferimento. Anche perché io disponevo di un benessere infinitamente maggiore del loro. Civiltà straordinaria, la Turchia: se uno scende a Istanbul si rende conto di essere in una delle grandi capitali del mondo, cioè Londra diventa una città di secondo ordine, in un certo senso, come Cairo, come Delhi. E, soprattutto,una civiltà molto diversa dalla nostra, ma straordinariamente organizzata: la burocrazia turca, per esempio, è quanto di più efficiente possa esistere al mondo. Si capisce come queste persone riuscissero a dominare un impero. Un prefetto turco a volte si doveva avere a che fare con loro per permessi di scavi o cose del genere ha una preparazione di cui noi non ci possiamo rendere conto.
R.A.
Hierapolis di Frigia (lattuale Pamukkale) è lantica città ellenistico-romana…
Giuliano
Sì, quelle città che vennero a formarsi in Asia Minore: Hierapolis per un fatto molto preciso, perché siccome nell’altipiano dell’Anatolia ci sono quelle pecore che danno la così detta lana di àngora (che altro non sarebbe se non la lana di Ankara), a Hierapolis esistono delle sorgenti solforose, calde, che permettevano di sgrassare questa lana, che veniva poi portata sulla costa e commerciata. Infatti cè un’iscrizione a Hierapolis, abbastanza interessante, che dice che un personaggio venne in Italia passando sotto Capo Malea, il Capo Matapan, per settantadue volte. Evidentemente veniva a Roma per commerciare, con Roma o Pozzuoli, la lana: che veniva sgrassata anche per essere tinta in queste conche naturali di calcare. Le fonti antiche ci dicono che il commercio della lana aveva unimmensa importanza per l’impero, la si importava largamente proprio dall’Asia Minore.
F.D.M.
Nel 1955 lei aveva venticinque anni: in che cosa consistette, in quel momento, scavare a Hierapolis?
Giuliano
Mah, si era agli inizi: io insieme a un architetto di Torino, il professor Verzone, ci trovavamo a esplorare la città per la prima volta, praticamente ne dovevamo fare il rilievo. Era stata esplorata dai tedeschi già alla fine dell’Ottocento, dallo Humann, che fu anche il grande costruttore delle ferrovie turche e che si portò via tutto l’Altare da Pergamo per Berlino… A questo proposito cè una straordinaria citazione di Turgenev, che vede per la prima volta, e apprezza, i rilievi dell’altare di Pergamo: bellissima descrizione, quasi dimenticata.
F.D.M.
Turgenev li vede in situ?
Giuliano
No, lui li vede a Trieste, se non sbaglio, mentre venivano trasportati… o invece forse a Berlino, quando vengono sballati: questo tra il 1880 e l’85, se non erro.
F.D.M.
In parallelo a Hierapolis lei diventa un redattore di punta, al fianco di Ranuccio Bianchi Bandinelli, dell’Enciclopedia dell’Arte Antica, Classica e Orientale.
Giuliano
Bianchi Bandinelli si rendeva conto che la cultura europea stava perdendo colpi e, come avviene nei momenti di crisi, bisognava riassumere tutto quanto si sapeva su un argomento. Per questo decise di fare questa Enciclopedia dell’arte antica, non come lancio, ma come summa, praticamente, di tutto quanto era stato fatto.
R.A.
Unidea alla Plinio il Vecchio.
Giuliano
Sì, ma proprio un momento vissuto anche con un senso di dolore, da parte sua…
F.D.M.
Per cui si inventa questo grosso monumento alla conservazione della cultura.
Giuliano
Si potrebbe dire di sì, un grande conservatore. Bianchi Bandinelli era uomo di straordinarie capacità. Di difficile carattere, a volte, ma di grande intelligenza,anche mondana in un certo senso. Non si fermava a singoli argomenti, voleva inquadrare il tutto in un insieme. Era una persona singolare, anche perché in lui convivevano due anime: toscana per parte di padre, tedesca per parte di madre. Tante volte, scherzando, gli chiedevo se quel determinato giorno dovevo avere a che fare con il tedesco o con il toscano: perché con il tedesco era più semplice, con il toscano forse meno. Uomo precisissimo, che però cercava di nascondere la sua sterminata preparazione… per esempio lui aveva sempre dei foglietti con sé, prendeva dei grandi fogli di carta per macchina, li piegava in quattro, ne traeva quattro fogliettini e prendeva degli appunti meticolosi, con una bellissima grafia, su tutto quello che leggeva. Aveva, poi, non tanto memoria visiva quanto la capacità di inserire un problema nella cultura europea generale. Cultura europea che, in lui, era un po’ particolare, si può dire; perché era grande cultura italiana esclusa, in un certo senso, quella meridionale, che non gli era molto affine: una cultura di tipo toscano-emiliano-umbro. Conosceva molto bene gli italiani, benissimo i tedeschi e i francesi. Era la Mitteleuropa, insomma, quella che più gli interessava… Al di fuori si sentiva, forse, un po a disagio: credo, per esempio, che la grande cultura spagnola lo interessasse meno; quella inglese, allora, non esisteva, è penetrata in Italia più tardi. Un tempo l’Inghilterra era un’isola lontana della quale si parlava poco. Bianchi Bandinelli – io lo vedevo – aveva dei tedeschi la capacità invidiabile della precisione: fedelissimo agli appuntamenti, né un minuto prima né un minuto dopo. Lavorava duramente quattro ore al giorno, sabato compreso, all’Enciclopedia. Aveva preso casa in via Arenula per essere più vicino all’Enciclopedia, per lavorare lì. Fu un lavoro sterminato, quando iniziammo nel 1955, in pratica non cera nulla: con Giovanni Becatti dovemmo cominciare a fare insieme gli schedari delle voci traendole da lessici di ogni genere, e poi preparare tutto il bagaglio iconografico, su cui Bianchi Bandinelli si dimostrava particolarmente esigente, perché non voleva lillustrazione generica, ma quel tipo di illustrazione che interpreta il monumento. Generalmente si prediligevano, allora, le fotografie dei grandi fotografi tedeschi degli anni trenta, che hanno trovato poi una manifestazione straordinaria con le Olimpiadi del 36.
F.D.M.
Le voci dell’Enciclopedia non erano mai neutre, sempre dal forte taglio saggistico.
Giuliano
Saggistico e critico: erano impostate molto bene, cioè si ponevano dei problemi, questo era il fatto interessante: se volete un esempio, andate a leggervi la voce «ritratto»…
R.A.
Per entrare un po in quel laboratorio degli anni cinquanta: non solo non esistevano ovviamente i computer, ma neanche le fotocopie…
Giuliano
Non cerano le fotocopie, dovevamo fare tutto a mano: cerano le macchine da scrivere.
F.D.M.
Comera il suo rapporto più intimo con Bianchi Bandinelli?
Giuliano
Di deferenza che si trasformò in amicizia, e anche a volte di contrasti. Gli volevo molto bene, e lui mi voleva molto bene. Il che non significa nulla, evidentemente. Ma ricordo che, purtroppo, lo vidi arrivare nel 1972 al Liceo Visconti, dove io presiedevo una commissione di maturità classica, per dirmi: «guarda, ho saputo di avere una gravissima malattia; in serata da Genova dove io insegnavo, peraltro mi faranno sapere quanto mi resta da vivere». E il responso fu: tre anni al massimo, come poi avvenne. Si seppe comportare bene anche di fronte alla morte.
R.A.
L’Enciclopedia di Bianchi Bandinelli, che in séguito ha avuto una serie di aggiornamenti, che funzione svolge oggi rispetto agli studi?
Giuliano
Ancora un ruolo indispensabile di informazione, tanto più che altrove, in Germania per esempio, vi sono nuove enciclopedie che vedono le cose sotto un aspetto tematico, e non più cronologico: come se il passato si fosse appiattito in un presente continuo…
F.D.M.
L’effetto panopticon.
Giuliano
…assurdo, insomma. Quella era lunica grande enciclopedia storica che esista per giudicare il passato.
R.A.
La mancanza prospettica è il difetto della nostra cultura.
Giuliano
Un enorme difetto e un enorme capitolo…
R.A.
Dal ‘tedesco’ Bianchi Bandinelli alla Germania di Giuliano: Tübingen, e poi naturalmente Berlino.
Giuliano
Ho incominciato ad andare in Germania nel 1950, ed era veramente ancora un paesaggio terribile, perché le città non esistevano più. Città come Kassel erano distrutte al 95%. Frequentavo allora l’Università di Heidelberg, una delle pochissime città di media levatura, come anche Bamberg, che non erano state bombardate perché era stato previsto che gli Americani o gli Alleati avrebbero dovuto avere un quartier generale proprio in una di esse. Bamberg fu abbandonata perché troppo vicina al confine orientale, e allora si scelse Heidelberg, che quando andai io era ancora occupata dalle truppe francesi, oltre che dal comando generale. Era stata la prima università tedesca. Bellissima biblioteca, in Marstallhof, ricordo… Ma debbo dire che non vi trovai però persone straordinariamente attente. Successivamente andai a Marburg e a Monaco, che si raggiungeva facilmente dallItalia. Poi, nel 1959 mi recai invece, per circa quattro-cinque mesi, a Tübingen, dove insegnava Bernhard Schweitzer. E lì fu il momento per me più felice. Lui era uno straordinario studioso, assomigliava a Hitler un poco, perché aveva i baffetti, era piccino, era gobbo avanti e dietro, ed era ancora più preciso di Bianchi Bandinelli, se si può. Arrivava al minuto, come Kant. Occupava quattro ore del mattino per preparare le lezioni e tratteneva il pomeriggio tutto per sé, per i suoi studi privati. Quindi, praticamente, lavorava dalle otto di mattina alle otto di sera, quasi senza interruzioni. Uomo straordinariamente intelligente, di quell’intelligenza che si spoglia dell’aspetto umano, a volte, quasi, e che è caratteristica molto tedesca: può essere bellissima o, evidentemente, orrenda altrettanto.
F.D.M.
E in che modo ancora si sentiva, nel mondo degli studi, la pressione del passato prossimo nazista?
Giuliano
Moltissimo. Infatti Schweitzer, per esempio, detestava un suo collega - che insegnava greco - in quanto era lirico, cioè faceva la bella lezione; a volte, a lezione, citava un altro collega, che era di Monaco, come esempio della cultura della piccola borghesia cattolica della bassa Baviera che per un prussiano come lui rappresentava, penso, il massimo delle ingiurie possibili. Schweitzer era un uomo estremamente misurato, di grandissimo approfondimento critico delle cose. Gli oggetti che esaminava li conosceva in un modo straordinario, tanto da correggere il famoso John Beazley di Oxford, addirittura, nelle sue attribuzioni: non erano mai esaminati per se stessi, ma sempre inquadrati in una prospettiva storiografica. Non ho conosciuto studiosi che possano essergli neppure lontanamente paragonati.
R.A.
Il massimo che si può chiedere a un classificatore, no?
Giuliano
Sì. Ed era paziente, attento, molto modesto, anche ideologicamente impostato. Per esempio lui suonava, orrendamente, la domenica mattina il pianoforte, e la domenica pomeriggio il violino: e soltanto Reger, per tornare ai generi musicali così inutilmente distrutti dal romanticismo tedesco. Insomma, aveva questi aspetti, a volte, di ideologia pratica.
F.D.M.
Quali erano, Giuliano, i suoi interessi predominanti in quel momento tedesco?
Giuliano
Assorbire un poco della cultura di un paese che, nella fattispecie, laveva avuta migliore di noi. Infatti, ogni tanto, lo Schweitzermi chiedeva - e bisognava fare il computo del suo umore, nel momento in cui chiedeva qualcosa - di portargli una fotografia di un pezzo difficilissimo, ma la migliore fotografia di quel pezzo: che bisognava appunto mettere in rapporto con il suo umore del momento. Non era semplice, insomma… Poi io desideravo completare una preparazione generale, ho avuto sempre paura delle preparazioni settoriali, che si vanno accentuando al giorno doggi anche per l’invasione tecnologica, e che diventano sempre più pesanti e stupide.
R.A.
E ora Berlino! Berlino est, magari…
Giuliano
Il carattere dei berlinesi è spumeggiante. Berlino ha un’aria che è come champagne, fresca, ventilata, bella. Bellissime donne non so perché si concentrino poi soltanto lì…
R.A.
L’aria mantiene la pelle.
Giuliano
Sì. Anche spiritosi i berlinesi. Il motto di spirito berlinese è quanto di più gradevole ci possa essere, sempre molto cerebrale. Era una grande capitale: per tornare a Bianchi Bandinelli, lui mi diceva che quando andava da Parigi a Berlino tra il 1928 e il 1930-31,cioè prima dellavvento di Hitler, gli sembrava di andare dalla periferia nella capitale, addirittura, tanto era linteresse che suscitava Berlino, la problematica che esisteva in quella città. Berlino è lultima città che si è arresa al nazismo: ci volle Göbbels che non è uno stupido: era uno dei grandi rappresentanti del terzo umanesimo, aveva fatto parte del circolo di Stefan George, fu lui il Gauleiter che fece crollare Berlino. I berlinesi non sono mai stati nazisti, in un certo senso, anzi parteciparono poi, in gran parte, alla resistenza… Lei mi chiede di Berlino est: era molto diversa da Berlino ovest, evidentemente, almeno quando io ero lì, tra il 1975 e il 78: molto opulenta Berlino ovest, più povera Berlino est, ma industriosa, anche. Questa annessione della Germania orientale, francamente, ha determinato per Berlino anche un disastro: adesso stanno distruggendo i monumenti. Per esempio i ministeri della Germania orientale, il Consiglio di Stato, erano edifici straordinari, la cui controparte a Berlino ovest erano stati gli altrettanto straordinari Mies van der Rohe, Gropius, evidentemente la vecchia Pinacoteca…
F.D.M.
E Scharoun.
Giuliano
Scharoun per la Filarmonica, la Staatsbibliothek e così via. Ma a Berlino est cerano delle belle cose, musei molto curati. Dovevo recarmi al Check-point Charlie tutti i giorni per passare il confine…
R.A.
A deporre il suo obolo.
Giuliano
Sì, lasciavo un marco al giorno, mi pare, e passavo tranquillamente. Ci ritrovavo sempre i miei colleghi di Berlino ovest che andavano a mangiare lì perché spendevano di meno… Se lei dragasse il canale della Sprea, troverebbe migliaia di obiettivi Leica usati, perché si andavano a comprare nuovi a Berlino est, dove non costavano nulla, e si gettava il ferro vecchio nella Sprea. Cosa avvenisse sottoterra, nelle metropolitane, non l’ho mai capito… La questione del Muro era molto più apparente che sostanziale.
F.D.M.
Prima, a proposito di Schweitzer, lei parlava dell’arte di riconoscere i pezzi archeologici: si può applicare il criterio dell’attribuzionismo all’arte greco-romana?
Giuliano
Si deve applicare, proprio perché le fonti lì sono scarsissime. Noi nell’arte moderna abbiamo Vasari, Malvasia, innumerevoli scrittori, documenti di archivio… Sappiamo per esempio che Nicola Pisano in realtà era pugliese, grazie a un documento di archivio. Tutta questa documentazione per il mondo antico non esiste più, quindi bisogna sforzarsi di avere un modo attributivo, morelliano. Quello che è stato adoperato straordinariamente dal grande Beazley, ma in forma riduttiva, perché poi è finito, a mio giudizio almeno, in una classificazione troppo minuta. Non si sono tenuti bene distinti i termini di valore (ci sono cose che valgono molto e cose che valgono poco): questo modo attributivo era stato applicato ai vasi greci, che sono oggetti di artigianato…
F.D.M.
La vera summa dell’arte greca negli studi italiani ce l’ha data Antonio Giuliano…
Giuliano
La Grecia antica, sa, è sempre un paese straordinario, perché nasce dalla miseria, continua per trecento anni in un’educazione di acciaio, entro formule geometriche - lo dico da un punto di vista formale -, avendo il ricordo dei grandi Stati, della ricchezza dei secoli precedenti. Questo è un fatto estremamente interessante, che generalmente viene sottaciuto: quando Omero parla delle grandi età del passato, dei grandi eroi, lo fa anche quasi con rancore, con rabbia, no? Ed è interprete di un momento in cui si sta risalendo una crisi profonda, che aveva ridotto, per dire, le tipologie dei vasi da una sessantina a cinque o sei: si usavano solo i vasi più indispensabili per le funzioni più elementari della vita umana.
F.D.M.
Una cultura funzionali sta, diciamo.
Giuliano
Straordinariamente funzionalista, dove la decorazione non è decorazione ma è indicazione delle funzioni del vaso: un modo coltivato per trecentocinquanta anni soprattutto dai grandi laboratòri dove si lavorava la ceramica… La grande officina del mondo greco è il mondo geometrico. Nessuno entri in questa sede dice Platone se non conosce la geometria. E aveva ragione. L’hanno inventata poi dopo, praticamente, con Euclide: un’economia di linguaggio e di segno straordinaria. È questo che sorprende ancora: il mondo antico greco, rispetto ai Moderni, come li chiamo io ingiustamente – per me i Moderni vanno dal Medioevo a oggi -, hanno un segno infinitamente più economico. Prendete un disegno di un vaso greco della fine del V secolo: ce ne sono alcuni non tutti, ma alcuni: i cosìddetti lekythoi funerari della cerchia del cosìddetto Pittore del canneto, per dirla in termini attribuzionistici , che hanno una linea dipinta, cioè disegnata con un pennello a setola dura, che non si trova neppure nei disegni di Raffaello o in quelli di Dürer, per dire il massimo tra i disegnatori che siano esistiti. La semplicità, l’aggressività, la potenza che derivano da questa economia, sono veramente sbalorditive.
R.A.
Lei connette abitualmente le fonti letterarie con lautopsia da archeologo, cioè l’esame interpretativo del manufatto. Cito un paio di esempi: lo studio del sarcofago del pronipote di Frontone – lo scrittore tardolatino; e il tema iconografico dei centauri, che parte da Luciano di Samosata e arriva sino al Botticelli.
Giuliano
Sì, sa, la fonte è sempre indicativa. Daltra parte lei, come termini espressivi cos’ha? la parola – che si traduce poi in parola scritta – e l’immagine: quindi bisogna connetterle queste due cose. Al giorno doggi cè una divaricazione tra la parola scritta - il libro - e l’immagine. Dante ha come equivalente Giotto, in un certo senso, e così Euripide i grandi pittori della sua epoca: che però sono perduti, noi possiamo averne traccia attraverso le rappresentazioni sui vasi attici alla fine del V secolo. Bisogna connettere queste cose. Lei mi diceva di Frontone: è logico, no? Frontone non era stato ancora scoperto, quando fu trovato il sarcofago. Fu scoperto soltanto dal Cardinal Mai, che allora non era ancora cardinale, solo monsignore…
R.A.
Quello di Leopardi, no?
Giuliano
Quello di Leopardi: un uomo intelligente, robusto, che prendeva però la malaria nella Biblioteca vaticana… anche l’erculeo monsignor Mai si prendeva la malaria nella Biblioteca vaticana, perché allora a Roma di primavera e di autunno si moriva di malaria: chi andava al Colosseo, ancora se la prendeva.
F.D.M.
Anche Stendhal ne parla nelle sue Proménades, quando da Roma destate si deve andare ai Colli.
Giuliano
È una vecchia usanza: quando si vedono i romani andare sotto il sole cocente a mangiare la pastasciutta messa nella padella portata a Ostia, per esempio, cè un motivo semplice: mia nonna mi diceva che mai uno doveva mettersi all’ombra di un albero, perché arriva la zanzara. Bisognava stare al sole cocente perché lì le zanzare non arrivavano.
R.A.
La zanzara vendicatrice di Virgilio…
Giuliano
…Allora, io misi a confronto il testo di Frontone con questo sarcofago che era a Pesaro…mi piace quest’idea di riconnettere sempre fonti letterarie e fonti figurate; anche perché poi ho studiato a lungo Leopardi, che a questo proposito scrive un brano estremamente indicativo. Oltre che grandissimo filosofo, Leopardi era un uomo intelligente, di una economia di linguaggio rara. Usava pochissime virgole, un bellissimo italiano, soprattutto. Anche il «Manzone», che non lo amava affatto, dirà che le Operette Morali sono il più grande capolavoro della lingua italiana che sia mai stato scritto. Leopardi dice: ma come si fa a interessarsi dell’antichità se non si conoscono a perfezione il greco e il latino? Io credo che la civiltà di una nazione si computi sul numero delle persone che conoscono il greco antico: Francesco I re di Francia impose alla Sorbona due lettori di ebraico e due lettori di greco, già all’inizio del Cinquecento. Perché chi sa il greco conosce un certo tipo di civiltà. E noi in Italia ce lo stiamo dimenticando.
F.D.M.
Tra l’altro lei ha studiato Leopardi - che in genere è considerato uno scrittore aniconico - nel suo rapporto con le arti figurative, per esempio il suo amore per il purismo neoclassico di Tenerani.
Giuliano
Sì, lì è piuttosto interessante. Lui riceve l’ispirazione di due dei Canti, che scriverà poi a Napoli, vedendo Pietro Tenerani a Piazza Barberini, qui a Roma: quella stele di Clelia Severini che è stata poi portata nel portico di San Lorenzo in Lucina. Sa, Leopardi è un personaggio tutto da riscoprire. Io, adesso, ho dei documenti… terrorizzava il principe Clemens Lothar Metternich, il quale allertava il suo ministro di polizia Sednizky, pigro, inefficiente, affinché gli desse informazioni su Leopardi: la più bella bibliografia su Leopardi è dovuta a una delazione del capo della polizia austriaca conte Sednizky a Metternich: una bibliografia perfetta, ma inviata al cancelliere tre anni dopo la richiesta quindi abbastanza inutile, quando Leopardi, credo, era già morto. E Leopardi era una persona che faceva paura, perché la libertà di pensiero che possedeva era tale che lo rendeva molto poco amabile: era un uomo che vedeva a distanza, soprattutto.
F.D.M.
Cioè col binocolo rovesciato.
Giuliano
Vedeva a distanza perché il suo scritto sul costume degli italiani è terribile, per tutti noi ancora. È indicativo dei nostri limiti.
R.A.
Lei ha studiato le grandi città del deserto, anche come esperimenti geo-politici tardo-antichi: per esempio Palmira…
Giuliano
Per Palmira si assiste a un fenomeno straordinario, la mescolanza di forme romane (reinterpretate attraverso il mondo romano orientale, che ha sue caratteristiche proprie) e forme partiche, cioè iraniche, con alcune forme indiane i rilievi palmireni sono molto simili ai cosiddetti rilievi del Ghandara , e addirittura cinesi.
F.D.M.
Un esempio di sincretismo radicale.
Giuliano
A Palmira cè una cultura che si va mescolando, ma che ha anche una sua organicità. Si classifica facilmente: un pezzo palmireno si dice che è «palmireno», non è di un altro sito. Ed è una cultura che si esporta anche in Asia centrale, sino nelle ex Repubbliche asiatiche-sovietiche e perfino in Mongolia… Questi fenomeni di civiltà diverse che si fondono tra loro sono un esempio paradigmatico per il nostro futuro: o noi andiamo verso una commistione di civiltà, oppure la stessa civiltà europea è ormai insufficiente…
F.D.M.
Civiltà al tramonto.
Giuliano
…al più una civiltà di servizio.
F.D.M.
E dunque lei spezza una lancia per una globalizzazione di tipo alessandrino.
Giuliano
Ma neppure un modello alessandrino… È piuttosto un modello medievale, quello che si aveva prima delle crociate, in un certo senso, dove Oriente e Occidente non hanno un concetto di prevalenza l’uno sull’altro: sono dei mondi, ognuno con le proprie esigenze, che si scambiano continuamente. E noi o andiamo verso questo futuro, oppure scompariamo.
R.A.
Un suo cavallo di battaglia è la glittica, cioè larte di intagliare, incidere le gemme e le pietre dure, oggetto di studio permanente da anni.
Giuliano
Ma io me ne occupo, guardi, non tanto per la bellezza dei singoli pezzi…
R.A.
…che non guasta.
Giuliano
Sì, che non guasta – perché sono molto belli -, quanto per il concetto stesso che in un oggetto così piccolo si possano riunire tante esperienze. Oggetti che hanno un valore enorme: per la Gemma Augusta oggi a Vienna nel Medioevo sarebbe stata barattata lintera città di Tolosa, e la Coppa Farnese, che apparteneva a Lorenzo il Magnifico (oggi è al Museo Nazionale di Napoli), veniva valutata ventimila zecchini quando La Primavera del Botticelli ne valeva ottanta. Perché tutto questo? Perché la glittica comporta una lavorazione estremamente lenta: essendo così piccini, gli oggetti debbono essere eseguiti da una sola persona.
R.A.
Come costruire una centrale atomica.
Giuliano
Sì, da soli però! mi capisce? Ci si mettono venti anni: tanto è larco di tempo che è stato necessario per realizzare la Coppa Farnese… oggetti miracolosi, destinati evidentemente a chi se li può pagare, alle grandi corti… E le grandi corti vi trasferiscono dei messaggi che sono messaggi politici, di anticipazione del futuro.
F.D.M.
Cioè sono dei laboratori.
Giuliano
Grandissimi laboratori culturali.
F.D.M.
Come del resto le Wunderkammern, le stanze delle meraviglie.
Giuliano
La Wunderkammer è il grandissimo laboratorio che suggerisce la scienza del Settecento. Nasce nel Cinquecento, si sviluppa soprattutto nel Seicento, e ci dà la dimensione di quello che bisogna fare, di quello che bisogna studiare. Così la glittica contiene - specie in alcune epoche - motivi formali, raccomandazioni, programmi politici: Antonio e Cleopatra parlavano tra di loro regalandosi oggetti di glittica, e non è un caso che Augusto dedicherà sei grandi glittoteche – quella di Mitridate, quella di Antonio e Cleopatra, quella di altri re dell’Asia Minore, sul Campidoglio addirittura… Tutti oggetti mirati a mostrare la sua potenza. E quando Augusto conquista l’Egitto, nel 30 a.C., prende il cosiddetto occhio tolemaico, cioè l’occhio gli diventa tre volte più grande. Perché? Perché l’occhio del padrone ingrassa il cavallo! Cioè nei ritratti ufficiali l’imperatore guarda col grande occhio così come il dinasta dei Tolomei controlla la piana del Nilo, per vedere quanto si può ricavare dalle terre irrigate, e così via. Tutti motivi che permettono di capire il mondo antico molto meglio di quanto uno si possa immaginare.
R.A.
Questo è un caso di fisiognomica del potere.
Giuliano
La fisiognomica del potere è caratteristica del mondo antico. Ogni cosa emanata dal potere, per ciò stesso ha un preciso valore simbolico. Nulla è mai gratuito.
F.D.M.
Antonio Giuliano, lei è anche uno degli ultimi interpreti della civiltà della conversazione: vuole parlarci di un altro dei suoi modelli, cioè Mario Praz?
Giuliano
Sì, io ero molto amico del Professore di inglese (che mi faceva venire l’influenza e non la broncopolmonite, per sua bontà). Frequentavo casa sua e ho imparato moltissime cose. Era un uomo molto malinconico, di una cultura vissuta in modo straordinario.
F.D.M.
Malinconia fredda, però.
Giuliano
No, a volte si apriva, in qualche momento della giornata… una cultura vissuta, come la sua, io non l’ho conosciuta in nessun’altra persona.
R.A.
In che senso vissuta? Perché ne era intriso?
Giuliano
Perché in lui la cultura era diventata corpo, carne proprio. Era di una incredibile curiosità, e in un certo senso era anche pericoloso frequentarlo, perché faceva delle domande talmente imbarazzanti… Ma non è che le facesse per dimostrare che lui era importante, ma per sapere altre cose: voleva continuamente accrescere il bagaglio delle sue conoscenze. Mi faceva delle domande… io tremavo di paura. Poi mi informavo, cercavo di completare le lacune, gli mandavo letterine. E anche la conversazione, poi, continuava per bigliettini…
F.D.M.
E che modello culturale ha lasciato Praz?
Giuliano
Guardi, il maggiore, credo, che ci abbia dato l’Italia del secolo scorso. È un modello anche di costanza, di vaglio critico, dove l’antiquaria diventa vita reale. Lui stesso diceva di vagare tra le ombre, no? Ma queste ombre sono ancora vive, quindi fanno parte del nostro bagaglio.
R.A.
Però, onestamente, la ricezione media del Professore non è questa: più antiquario nel senso di
professore di cose morte.
Giuliano
No, erano cose molto vive, guardi. Era un uomo sensibilissimo a qualsiasi fenomeno, che si era isolato… vedeva il mondo forse in modo glaciale, come attraverso una vetrina, ma capiva tutto quello che vi accadeva. Accanito lettore di giornali, di libri, sapeva praticamente tutto.
F.D.M.
Poi only connect, la grande testa che connette.
Giuliano
Conosceva tutte le lingue alla perfezione, leggeva anche il russo molto bene. Gli mancava unesperienza del mondo orientale.
R.A.
E per questo cera lei!
Giuliano
No, sa, io purtroppo non conosco né larabo né il persiano, qualche parola di turco conosco… La mia gravissima lacuna è che non ho sensibilità per le lingue. Ho più sensibilità per i fatti formali, più il segno che il suono, in definitiva. Lui era un uomo del quale la cultura ufficiale italiana non si è accorta.
F.D.M.
È rimasto un grande a parte, no?
Giuliano
In una tale dimensione un po paurosa, in un certo senso…
F.D.M.
…e demoniaca.
Giuliano
Per gli altri: ma neppure demoniaca… sì, demoniaca nel senso antico, perché era un invasato: sapeva tutto, e sapere tutto non è affatto semplice. Con un bagaglio di umiltà, anche, poi, di fronte alle cose. Non ha mai avuto laspetto del professore. Ci cacciava dall’aula quando andavamo a lezione, non voleva più di due persone che lo ascoltassero.
F.D.M.
Lei frequentava anche la Casa della vita, immagino.
Giuliano
Sì, quando era ancora in via Giulia. Poi non andai in via Zanardelli, al Museo Napoleonico non andavo più.
R.A.
Un altro nome al quale lei si è molto legato è quello di Raffaele Pettazzoni, lo storico delle religioni.
Giuliano
Se uno considera che lui, nel 1950, ci faceva lezione su Malinowski, su Sesso e repressione sessuale tra i selvaggi, e ci diceva, allora: «esiste a Parigi un giovanotto, molto intelligente ma un po’ avventato, che sia chiama Lévi-Strauss…». Promuoveva gli studenti, pur di non esserne imbarazzato, e quando gli si chiedeva qualcosa: «scusi,ma è un problema talmente complesso… glielo dirò la prossima volta». Pur di scappare a casa a lavorare.