I venticinque anni dell’associazione Bianchi Bandinelli
L’Associazione “Ranuccio Bianchi Bandinelli”, fondata da Giulio Carlo Argan nel dicembre 1991, ha da poco compiuto 25 anni di studi e battaglie nel campo della conoscenza, della tutela, della valorizzazione dei beni culturali e del paesaggio. Per festeggiare l’anniversario, il 31 gennaio 2017 si è tenuto un convegno, che ha avuto luogo presso il Museo Nazionale Romano (Largo di Villa Peretti), dalle ore 15:00.
In questo quarto di secolo l’Associazione ha contribuito con numerose attività di riflessione e discussione, di protesta e proposta, al rinnovamento e miglioramento del sistema legislativo e organizzativo, alla difesa e promozione del patrimonio culturale italiano, concepito nella sua integrità e nella sua funzione storica, educativa e sociale, mantenendo vivo l’insegnamento di Ranuccio Bianchi Bandinelli, di Giulio Carlo Argan e di Giuseppe Chiarante, che ne fu a lungo presidente. Più recentemente sono state condotte iniziative sul riassetto dell’area archeologica dei Fori e sull’Appia antica, riprendendo le idee di Antonio Cederna, ma anche sui beni demoetnoantropologici, sul Piano per Taranto e sul problema della formazione e delle professioni dei beni culturali, oltre che sulle continue riforme che hanno profondamente trasformato l’organizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo.
Le vicende dall’Associazione sono state accompagnate dalla proiezione di un video sulle sue origini e inquadrate da una relazione storica di Francesco Barbagallo, che fu tra i soci fondatori. Marisa Dalai, Claudio Gamba e Giovanna Merola hanno ricostruito le principali iniziative promosse negli ultimi 25 anni, in rapporto con le scelte politiche che hanno investito via via il patrimonio culturale italiano. Vittorio Emiliani ha ricordato la figura di Giuseppe Chiarante, presentando gli atti del convegno che gli fu dedicato nel 2013. In conclusione il presidente Vezio De Lucia ha prospettato le future prospettive di ricerca e di impegno militante.
In occasione dell’iniziativa è stato pubblicato uno speciale Annale, che raccoglie i dati più significativi di 25 anni di storia dell’Associazione.
Si pubblicano di seguito gli interventi di Marisa Dalai Emiliani e Giovanna Merola.
Marisa Dalai Emiliani, Formazione e occupazione dei professionisti del patrimonio (intervento del 31 gennaio 2017)
Tra i temi nodali con cui l’Associazione si è misurata, sia con indagini periodiche e verifiche sul capo, sia con tempestive prese di posizione nei processi di riforma che si sono susseguiti nel corso di un quarto di secolo, in primo piano è sempre stata la qualità della formazione dei ‘professionisti del patrimonio’, per usare un’espressione attuale ben più pregnante di quella del passato, di ‘addetti alla tutela’, ma senza mai perdere di vista l’andamento dell’occupazione. Una scelta, quella di battersi per una formazione specialistica davvero qualificata, che non può certo stupire se si pensa alle vicende biografiche e politiche dei due fondatori: da un lato, al lungo engagement nell’insegnamento universitario della Storia dell’arte di Giulio Carlo Argan, passato dall’amministrazione delle Belle Arti all’università fin dal 1955, d’altro lato, all’impegno in prima linea di Giuseppe Chiarante in Parlamento per una scuola democratica e, in particolare, per la travagliata riforma della scuola secondaria superiore (nella VIII, IX, X, XI legislatura).
Ripercorrendo le tappe di un settore d’intervento che ha permesso all’Associazione di conseguire forse i risultati più concreti e rilevanti- come vedremo-, non si può non cogliere la peculiarità e la coerenza di un’impostazione, di una linea di pensiero niente affatto scontate, che in sintesi si possono riassumere in due punti. Il primo:
- I) parte integrante della tutela del patrimonio è la formazione di chi la esercita e ne è responsabile (è lo stesso concetto che in anni recenti si è affermato per il restauratore, con l’istituzione di una laurea quinquennale dedicata: la formazione del restauratore è parte integrante del restauro); il secondo:
- II) formazione e occupazione costituiscono un binomio inscindibile, sono e devono essere le due facce dello stesso problema, soprattutto nell’ambito dei beni culturali. In questo campo “non può esistere lavoro senza formazione. Ma formazione senza lavoro non è civiltà”, per rubare le parole a Gerardo Marotta, il fondatore dell’Istituto di Studi filosofici a Napoli, che ci ha lasciato in questi giorni e dal quale, queste parole, le ho sentite ripetere una quantità di volte. Ma un principio così giusto in Italia è stato disatteso da sempre, sia dall’università, diventata università di massa del tutto indifferente agli sbocchi professionali dei suoi diplomati e laureati, sia dal sindacato, che ha sempre anteposto l’anzianità di servizio a qualunque tipo di formazione.
Testimoni di questo orientamento dell’Associazione e delle conseguenti discussioni e battaglie politiche sono i volumi degli Annali, specchio di convegni, tavole rotonde, giornate di studio, in cui il problema è stato affrontato più volte in relazione al mutare dei contesti.
Fin dal primo Annale pubblicato nel 1994, una coraggiosa inchiesta a cura di Marco Causi del CLES, l’istituto di ricerche per l’economia della cultura creato da Paolo Leon, analizzava l’evoluzione della spesa pubblica in rapporto alle prospettive occupazionali nei beni culturali. Si trattava del bilancio di un decennio, quello degli anni Ottanta, in cui si era optato per un forte aumento degli stanziamenti di risorse per la cultura, sia da parte dello stato che di regioni e enti locali – nell’analisi dei dati raccolti la spesa pubblica del settore risultava più che raddoppiata -, e però molto deludente per l’occupazione, nonostante le aspettative di job creation che erano state riposte nei beni culturali come ‘motore di sviluppo’ e le conseguenti ottimistiche previsioni di decine di migliaia di nuovi posti di lavoro. Un vero e proprio mantra, questo – chi di noi non lo ricorda? – alla base della proliferazione incontrollata dei nuovi Corsi di laurea in beni culturali (il primo attivato a Udine nel 1983), ad evidenza fabbriche di disoccupati; per non dire di un altro progetto in buona parte fallimentare sul piano degli esiti scientifici, quello dei cosiddetti “giacimenti culturali”, cioè il piano nazionale di catalogazione digitale del patrimonio, lanciato dal ministro del Lavoro De Michelis con la Legge finanziaria del 1986 e rivelatosi un forte incentivo esclusivamente per lo sviluppo delle imprese informatiche, solo sporadicamente guidate da funzionari del MiBAC.
Pochi anni più tardi, l’Annale n. 6 del 1999, dedicato a L’Università nel sistema della tutela, con focus sui beni archeologici, documenta un quadro politico decisamente cambiato. Nella stagione delle grandi riforme inaugurata dal primo governo Prodi, riforme che investono contemporaneamente gli istituti scolastici e le università, passati a un regime di autonomia, e parallelamente la legislazione e l’assetto del rinnovato Ministero dei beni e delle attività culturali, insieme alle competenze di Regioni e Enti locali, -tutto questo ridisegnato attraverso i decreti 112/1998 e 368/1998 a firma dei ministri Bassanini e Veltroni- , il rapporto tra formazione e lavoro sembra finalmente messo a fuoco: ma le contraddizioni non mancano ed è proprio Chiarante a metterle in luce, anche nella sua veste di vicepresidente del Consiglio Nazionale dei beni culturali e ambientali, attraverso il testo di una importante mozione approvata all’unanimità nel marzo del 1999 e pubblicata a corredo dell’Annale
- 6. Se il dlgs 368 del 1998 prevedeva infatti con l’articolo 9 un riordino delle Scuole di alta qualificazione per il restauro del MiBAC, riconoscendo finalmente al titolo rilasciato l’equiparazione al diploma di laurea, il DM 509 del 1999, seguito dai due DM del 2000, in nome dell’armonizzazione con i sistemi d’istruzione europei articolava l’istruzione universitaria anche in Italia su due livelli, istituendo le Classi delle lauree triennali e quelle biennali specialistiche – la ben nota architettura 3+2 (uguale a zero, commentava qualcuno) -, e di fatto decretando l’abolizione del terzo livello formativo post-lauream, quello delle storiche Scuole di specializzazione di area umanistica in Archeologia, Storia dell’arte e anche in Restauro dei monumenti, attive da oltre un secolo.
La risposta strategica dell’Associazione Bianchi Bandinelli a quelle scelte fu il convegno internazionale organizzato con la Conferenza dei Rettori e con l’Accademia dei Lincei nel maggio del 2000 (gli atti sono pubblicati nell’Annale n.10 del 2001). In quella sede fu l’evidenza del confronto con i sistemi formativi degli altri paesi europei e in particolare con i criteri di accesso alle carriere direttive del patrimonio – requisito generalmente richiesto, il diploma di dottorato – a vincere le resistenze del sottosegretario Luciano Guerzoni, che assisteva ai lavori ed era convinto assertore della necessità di abbreviare drasticamente i percorsi formativi universitari come ci richiedeva l’OCSE, al più attivando master di breve durata, senza selezione d’ingresso per merito e per concorso pubblico. Fu così che in una successiva legge omnibus di finanziamento dei Beni culturali, del 23 febbraio 2001, poté essere incluso un articolo, l’articolo 6, che consentiva agli Atenei di approvare gli ordinamenti didattici delle nuove Scuole di specializzazione per le professionalità del settore della tutela, entro 18 mesi. Sarebbero occorsi viceversa altri 5 anni perché dal concerto tra i due dicasteri del Miur e del Mibact, secondo quanto prevedeva con audace innovazione quell’articolo 6, prendessero forma i nuovi ordinamenti delle riattivate Scuole di specializzazione, secondo un modello formativo moderno. Un risultato da annoverare principalmente tra le vittorie dell’Associazione.
Negli anni seguenti l’attenzione dell’Associazione a questo insieme di problemi non sarebbe mai venuta meno: dall’incontro nazionale, nel 2007, con i direttori delle neo-istituite Scuole dei vari indirizzi disciplinari e una proposta di coordinamento permanente, all’inchiesta sull’insegnamento di Legislazione dei Beni culturali, i cui esiti tutt’altro che rassicuranti furono pubblicati nell’ Annale n. 22 del 2010.
Ma gradualmente e inevitabilmente un’emergenza sempre più grave, da denunciare e da fronteggiare con lucidità politica, si è imposta al nostro impegno: accanto alla crescente disoccupazione, il fenomeno del precariato – di cui già parlava profeticamente Argan -, che dall’inizio del Duemila è venuto caratterizzando tutte le attività per e intorno ai beni culturali, assumendo in questo settore forme gravi e peculiari. L’allarme era già stato lanciato in una giornata di studio del 2004, Lo storico dell’arte: formazione e professioni (gli atti nell’Annale n.16), conclusa dalla tavola rotonda Lo storico dell’arte nel mercato del lavoro tra pubblico e privato. Ma è stato nel più recente convegno del 2012, L’Italia dei beni culturali: formazione senza lavoro, lavoro senza formazione (gli atti sono pubblicati nell’Annale n. 23 del 2014, con un’ampia appendice di documenti e testi normativi) che il bisturi dell’analisi e la drammaticità delle testimonianze hanno messo a nudo una situazione ai limiti della sostenibilità, dovuta a varie concause tra cui trent’anni di errori nelle strategie della formazione universitaria, ma insieme, i processi in atto di esternalizzazione di funzioni e servizi da parte degli enti pubblici preposti alla tutela, conservazione e valorizzazione del patrimonio, e ancora, le forme contrattuali dei lavoratori precari, senza diritti e senza tutele, prima e dopo la riforma Fornero.
Come sappiamo, non sembra che i provvedimenti introdotti con il cosiddetto Job’s Act abbiano migliorato le condizioni del lavoro precario, in particolare in questo settore; né si possono considerare strumenti di contrasto al precariato, che ne risulta al contrario incentivato, misure demagogiche come quella che ha provocato, l’11 gennaio 2014, la manifestazione 500 NO al Mibact, condivisa anche dalla nostra Associazione. L’unico passo avanti importante, da anni sollecitato e finalmente tradotto nella modifica della prima parte del Codice dei beni culturali e del paesaggio con legge del 22 luglio 2014, è stato –in linea con l’Europa- il riconoscimento, attraverso l’introduzione dell’articolo 9–bis, delle figure professionali ‘competenti ad eseguire interventi sui beni culturali’ e la prevista istituzione presso il Mibact di elenchi nazionali di tali professionisti del patrimonio, purché ‘in possesso di adeguata formazione ed esperienza specifica’.
I requisiti per l’iscrizione a tali elenchi nazionali avrebbero dovuto essere individuati entro sei mesi, d’intesa con le associazioni di categoria. Sono passati ormai oltre due anni e mezzo. Ma la mobilitazione dei precari del lavoro intellettuale non si ferma. La campagna promossa con il titolo Mi riconosci? Sono un professionista del patrimonio, il 2 febbraio 2017 a Montecitorio culminerà nella proposta di un ‘Patto per il lavoro culturale’.
Intervento di Giovanna Merola al convegno: 25 anni dell’Associazione R Bianchi Bandinelli (Roma, 31 gennaio 2017)
Vorrei mettere in evidenza la caratteristica che a mio parere contraddistingue l’Associazione Bianchi Bandinelli e che la differenzia da altre associazioni: la specifica attenzione all’insieme del patrimonio culturale italiano, un contesto composto certo di realtà diverse, di varia natura e identità, ma tra loro interconnesse e sopratutto integrate nel territorio, e questo anche per le vicende politiche e culturali della storia del nostro paese. Questa linea di indirizzo, questo filo rosso lungo il quale si sviluppano le iniziative portate avanti dalla Bianchi Bandinelli, colpisce per la sua straordinaria attualità, pur essendo stata alla base dell’azione associativa fin dal suo inizio.
Per questa sua peculiare caratteristica, partendo dai temi e dagli ambiti più seguiti nei primissimi anni di attività, in un certo senso dall’eredità di Argan e Bianchi Bandinelli, l’Associazione si occupa ben presto di altri aspetti e si impegna per l’inclusione di altri beni culturali nelle politiche di tutela e valorizzazione, organizzando occasioni di riflessione e dibattito: sulla lingua (nel 1996), sui musei, con un importante incontro sui Nuovi Uffizi del 1995, sui beni musicali (2001), sugli archivi e le biblioteche. E’certamente la sensibilità e la lucidità di Chiarante che spinge in queste direzioni, ma anche la presenza negli organi associativi, fin dalla fondazione, di specialisti che si occupano di questi settori come Anna Maria Mandillo, Linda Giuva, Matilde Callari Galli e molti altri.
Facendo leva sul filone degli studi e su quello dei convegni, dei documenti e degli appelli, con l’approfondimento teorico che si faceva impegno in occasioni pubbliche e restava poi documentato in gran parte nelle pubblicazioni (gli Annali e i Quaderni giuridici), in tutti questi ambiti l’Associazione è stata presente e attiva in maniera pressoché continua. Così accade anche sulla delicata materia della mancata tutela del patrimonio immateriale e sui beni demoetnoantropologici, per i quali l’Associazione organizzò un convegno già nel ’97; su questo stesso tema siamo ritornati, come molti ricorderanno, nel novembre scorso; e a questo proposito non bisogna dimenticare che l’inserimento stesso nel Codice dei beni culturali dei beni demoetnoantropologici, anche se con alcuni limiti, deriva proprio dalle iniziative dell’Associazione.
Per archivi e biblioteche l’analisi e l’impegno dell’Associazione si rivolge prevalentemente alle istituzioni che gestiscono questi beni e all’ambito del Ministero beni culturali: fra l’altro la vicenda di questi istituti, in particolare negli ultimi anni, si intreccia con le continue riforme che investono il Ministero e che ne stravolgono poco alla volta l’impostazione originaria. A questo proposito è da ricordare che sui temi delle riforme legislative, a partire dal 2001, l’Associazione cura una serie editoriale, i Quaderni giuridici, che costituiscono una documentazione completa, fatta di testi e commenti, del sistema giuridico dei beni culturali.
Tornando alle biblioteche la prima giornata di studi (nel 1999, dal titolo: Il sistema bibliotecario italiano e il nuovo Ministero) ha lo scopo di ribadire la necessità di un sistema nazionale delle biblioteche, attuando un coordinamento di stato, regioni, università, enti locali, accademie e istituti di cultura, nel momento in cui il contesto normativo era in evoluzione. Diceva Chiarante in quell’occasione :”Quando si lamenta, come spesso accade, il carattere settoriale o marginale dell’attenzione dedicata ai beni librari e alle biblioteche, si mette in evidenza, in realtà, una conseguenza di questa incompiuta unificazione”. Chiarante alludeva qui ad un aspetto per lui significativo, cioè all’integrazione fra i diversi settori del Ministero.
E ancora aggiungeva “superare questa concezione giuridica di Bene culturale ancorata ad una visione arretrata conservatrice è dunque un primo passo essenziale per superare una logica di tutela essenzialmente vincolistica[…] e giungere ad una visione più integrata e complessiva dei beni culturali e della politica che li riguarda.” Non manca anche un cenno, in quella relazione, all’esperienza di cooperazione fra diversi soggetti, che nel settore delle biblioteche era stata realizzata da alcuni anni, quella cooperazione che ha portato i suoi frutti con la partecipazione ampia di istituzioni diverse, anche come appartenenza amministrativa, alla rete di biblioteche del Servizio bibliotecario nazionale SBN.
Agli archivi l’Associazione dedica negli anni ’90 due incontri, nel ’98 e nel 99, rispettivamente dedicati agli “archivi pubblici” e al tema specifico del codice deontologico nel convegno “la storia e la privacy”. I temi più generali della gestione e della formazione nel settore erano stati oggetto del convegno del ’98, ma dopo la pubblicazione del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 281, “Disposizioni in materia di trattamento dei dati personali per finalità storiche, statistiche e di ricerca scientifica” era importante indagare attorno ai principi metodologici e alle deontologie professionali del lavoro dell’archivista. In quella sede fu annunciato dai due ministri Veltroni e Bassanini il proposito di introdurre nell’archivio corrente di ogni struttura pubblica statale una nuova figura professionale dotata di competenze plurime, archivistiche, giuridiche e informatiche, che poi sarebbe stato traslato nell’articolo 61 del dpr 445/2000, il testo unico sul documento amministrativo. Iniziative successive furono incentrate quindi sulla formazione degli archivisti, poiché fu sempre più evidente che senza una precisa individuazione delle competenze che questi professionisti avrebbero dovuto esercitare in una società complessa e sempre più pervasa dalle nuove tecnologie, si sarebbe rischiato un loro ruolo marginale a favore di altre professionalità prive delle competenze indispensabili, ma più agguerrite.
Insieme, archivisti e bibliotecari dell’Associazione organizzano nel 2006 l’iniziativa “Archivi, biblioteche e innovazione” per approfondire il tema dell’innovazione tecnologica che stava attraversando i due settori, con alterne vicende e sfaccettature diverse, ma anche molti aspetti comuni. Da qui la richiesta, ribadita in mozioni e appelli, di maggiori finanziamenti, regolari e continuativi, ma anche di superare la miopia di una visione della cultura fondata sulla più o meno immediata redditività dei beni. Visione questa, come ebbe a dire Chiarante anche in quell’occasione, di taglio rozzamente economicistico, che produce scompensi ed errori “anche sul piano specifico della salvaguardia del patrimonio artistico, ma tanto più li produce per settori come archivi e biblioteche…” E’ vero che l’utilità di archivi e biblioteche per l’economia nel suo complesso non è rappresentabile in termini di PIL, ma proprio per questo vi deve essere da parte dello stato un surplus di legittimazione, spesso mancante o carente. Ancora in occasione della recente riorganizzazione del Ministero beni culturali del 2014, l’ABB fa rilevare come “l’impressione che si ricava da questa ipotesi di riorganizzazione è che in questo nuovo modo di intendere l’amministrazione dei beni culturali, utili per promuovere il turismo e produrre introiti, biblioteche ed archivi (ed i relativi professionisti) non siano in alcun modo compresi per la funzione cruciale che svolgono, in quanto ritenuti un peso, una zavorra di cui ci si libererebbe volentieri”. Ne costituisce una tristemente significativa testimonianza, ad esempio, la spregiudicatezza con la quale si è arrivati, in tale riorganizzazione, ad accorpare una biblioteca dell’importanza anche storica della milanese Braidense alla Pinacoteca di Brera, sopprimendo il dirigente bibliotecario di quella che è una delle istituzioni più prestigiose del paese, e sostituendolo con uno storico dell’arte manager.
Concludo con le parole di Anna Maria Mandillo in apertura del convegno del 2006 prima citato, che si attagliano perfettamente al ruolo che l’Associazione Bianchi Bandinelli ha sostenuto nel tempo e non solo in questi settori: “Il principale obiettivo che ci poniamo, è di far tornare biblioteche e archivi nell’agenda politica italiana e nella giusta prospettiva di ruolo, risvegliando l’attenzione poco più che episodica che la classe politica ha avuto verso queste istituzioni […] perché lo sviluppo e il buon funzionamento della rete delle biblioteche e degli archivi contribuisce in maniera significativa alla crescita culturale, sociale ed economica di un paese”.
Marisa Dalai Emiliani, Contributi di ricerca e nuove frontiere dell’impegno dell’Associazione Bianchi Bandinelli (secondo intervento del 31 gennaio 2017)
Ancora due aspetti meritano di essere ricordati dell’attività svolta nel tempo dall’Associazione. Mi riferisco innanzi tutto ai contributi di ricerca che, coerentemente con il sottotitolo della sua denominazione – ‘Istituto di studi, ricerche e formazione’ – ha promosso e ospitato nella collana degli Annali. Penso in particolare ai volumi dedicati a due delle funzioni fondamentali della tutela: la catalogazione e il restauro. La raccolta di scritti di Michele Cordaro, Restauro e tutela, pubblicata nel 2000 (Annale 8) subito dopo la prematura scomparsa del direttore dell’ICR, che era anche vice-presidente della Bianchi Bandinelli – ‘un intellettuale critico e scomodo nelle istituzioni di tutela’, come lo definiva Chiarante – è stata adottata in molti corsi universitari e ristampata in una seconda edizione del 2003. Vasti consensi ha ottenuto anche l’Annale 18 del 2007, Catalogo, documentazione e tutela dei beni culturali, un riesame della figura e dell’opera di Oreste Ferrari, direttore per un ventennio dell’ICCD, ma insieme una ricostruzione, a cura di Claudio Gamba, di un secolo di storia delle strategie di conoscenza del patrimonio adottate attraverso gli strumenti del Catalogo in Italia, con una preziosa messe di fonti edite e inedite.
Tra gli scritti di Cordaro, un interesse molto attuale rivestono quelli incentrati sul tema del patrimonio a rischio sismico, che si collegano idealmente alle iniziative pionieristiche, fin dai primi anni Ottanta del Novecento, del direttore dell’I.C.R. Giovanni Urbani, ma inevitabilmente riportano anche al nostro presente.
La questione del terremoto, della sua strumentalizzazione a fini politici, ha fatto irruzione nell’ attività della nostra Associazione con la crisi sismica abruzzese, nel 2009. Già il 10 dicembre di quell’ anno organizzammo il convegno L’Aquila: questioni aperte. Il ruolo della cultura nell’Italia dei terremoti (gli atti nell’Annale 21 del 2010), nel quale furono coinvolti i testimoni più consapevoli delle ricostruzioni ‘virtuose’ dell’Alto Friuli, dopo il terremoto del 1976, dell’Umbria e delle Marche, dopo quello del 1997. A un solo anno di distanza, con un nuovo incontro, L’Italia non può perdere l’Aquila. Le obiezioni, le prospettive, tentammo di aprire un dialogo, da un lato, con alcuni referenti scientifici, dall’altro con i principali attori, uomini delle istituzioni, amministratori e politici, sulla scena della città in macerie, impossibilitati ad agire per l’onnipresenza dei poteri del Governo centrale e della Protezione Civile. Da allora non abbiamo smesso per diversi anni di monitorare la situazione, di denunciare errori, inadempienze e ritardi nel recupero del patrimonio storico e culturale, individuando sul posto interlocutori e alleati tra la cittadinanza attiva.
Senza quell’esperienza l’Associazione probabilmente non si sarebbe sempre più aperta, come invece ha fatto negli ultimi anni, ai problemi del territorio e della città, anche attraverso nuove forme di mobilitazione e protesta civile, dalla marcia pacifica su Pompei (ottobre 2014) alla camminata sull’Appia Antica sulle tracce di Antonio Cederna (febbraio 2016) fino alla manifestazione di pochi giorni fa, a Taranto, per un recupero corretto del centro storico e il riscatto di chi ci abita.