ANNALE n. 15 (2003): Giuseppe Chiarante, Sulla Patrimonio SPA e altri scritti sulle politiche culturali

ANNALE n. 15 (2003): Giuseppe Chiarante, Sulla Patrimonio SPA e altri scritti sulle politiche culturali

 
 
 

Annali dell’Associazione Bianchi Bandinelli 

n. 15 – 2003

Giuseppe Chiarante 

Sulla Patrimonio S.P.A.

e altri scritti sulle politiche culturali

«Annali dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, fondata da Giulio Carlo Argan», n. 15, Graffiti editore, Roma 2003.
 
Sommario del volume:

Giuseppe Chiarante, Introduzione, p. 5

PRIMA PARTE
Sulla Patrimonio S.P.A.

Ma l’Italia è oggi più povera che a fine Ottocento?, p.  13
Il “modello Italia” e la cultura della conservazione, p.  20
Il Ministro delle “anime morte”, p.  26
Musei e Soprintendenze, le condizioni per un buongoverno, p.  35
Un patrimonio inalienabile, p.  43
L’impazienza di Urbani e Tremonti, p.  43
Beni culturali, il Tesoro apre i saldi, p.  48

SECONDA PARTE
Altri scritti sulle politiche culturali

Autonomia e rigore scientifico nella politica della tutela: il progetto di Giulio Carlo Argan, p.  33
Introduzione alla lettura del Testo Unico delle norme sui beni culturali e ambientali, p.  67
L’ordinamento centralista del nuovo Ministero per i Beni e le Attività culturali, p.  77
Alle radici del paradosso scolastico, p.  84
Cultura, economia e politica nel secolo breve, p.  91

DOCUMENTI

Un Ministero a rischio, p.  99
Poli museali e Soprintendenze territoriali, p.  101
I fini della tutela: cultura, non economia, p.  104

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Giuseppe Chiarante
Introduzione
 
Ho ritenuto opportuno raccogliere in un libro di rapida lettura una serie di scritti che nel corso degli ultimi mesi ho dedicato alla tanto discussa “Patrimonio S.p.A” e, più in generale alle disposizioni legislative che prevedono la possibilità di alienare, per fare cassa, beni appartenenti al patrimonio culturale dello Stato; o che, comunque, affacciano l’ipotesi di affidarli in concessione a una gestione di tipo privatistico che inevitabilmente comporterebbe limiti sia per un’efficace azione di tutela sia per la fruizione e il godimento pubblico. Ho integrato questa raccolta di scritti – quasi tutti già apparsi, anche se talvolta in forma ridotta, su giornali o riviste – con precisazioni e annotazioni che arricchiscono l’argomentazione o la rafforzano con dati o documenti. Nella seconda parte del volume mi e’ invece parso opportuno riunire altri interventi, anch’essi molto recenti o comunque elaborati negli ultimi anni, che si riferiscono a problemi diversi da quello delle alienazioni e delle concessioni, ma che hanno una connessione molto stretta con il ragionamento di fondo che sta all base degli scritti raccolti nella prima parte.
C’è un filo rosso che, in modo molto evidente, percorre e unifica il libro. Esso sta nella preoccupazione, in me e non solo in me molto forte, per la preminenza che negli ultimi tempi e’ venuta via via assumendo – in modo più palese nel campo dei beni culturali, ma con conseguenze molto negative anche in altri campi delle attività culturali, dalla scuola alle varie forme di comunicazione – una visione che tende a subordinare la cultura e la politica che la riguarda a un’impostazione di tipo economistico e alla pervasiva ideologia liberista. Tale subordinazione produce, infatti, conseguenze devastanti. Non solo perché apre pericolosamente la strada a distorsioni in senso aziendalistico e mercantilistico nell’elaborazione delle politiche culturali. Ma perché spinge a smarrire o comunque ad annebbiare il senso profondo del valore della cultura e del patrimonio culturale: quel senso profondo che sta nell’essere un elemento essenziale dell’identità di un popolo, nel costituire un fondamento da cui non si può prescindere per un avanzato sviluppo umano e civile, nel rappresentare un fattore qualificante per la formazione di una personalità libera e matura. Decisivo, perciò, è riaffermare, contro questa perversione economicistica, che il fine fondamentale delle politiche culturali deve essere nella valorizzazione della risposta che la cultura dà ai più alti e più ricchi bisogni dell’uomo: e quindi nell’avanzamento della ricerca e della conoscenza, nell’ampliamento della sfera delle libertà, nella fruizione da parte di un numero crescente di donne e di uomini di quanto di meglio la storia umana ha prodotto.
Proprio per questo mi è parso e mi pare giusto sottolineare due contraddizioni apparentemente paradossali che caratterizzano la situazione attuale. La prima è che – si tratta di un esempio, ma è un esempio molto significativo: ho perciò voluto dedicare ad esso il primo saggio raccolto nel volume – mentre la classe dirigente dello Stato italiano di fine ‘800 (uno stato davvero povero e con basi ancora molto fragili) dopo lunghe discussioni dovute appunto alle difficoltà economiche avvertì come dovere nazionale procedere all’acquisto di un autentico tesoro come la Galleria e la Villa Borghese, viceversa la classe dirigente dell’opulenta Italia di oggi, ottava potenza industriale al mondo, non esita a considerare la possibilità di vendere o dare in concessione anche parti importanti del patrimonio culturale pubblico per ridurre il deficit del bilancio statale. Senza per nulla sopravvalutare i governi di fine Ottocento, questo confronto è estremamente indicativo della miseria della cultura politica oggi dominante.
Il secondo apparente paradosso (e questo vale non solo per i beni culturali, ma per tutti i settori della cultura) è che proprio quando l’avanzamento scientifico e tecnologico e il dispiegamento delle forze produttive potrebbero ormai consentire – tanto più in un paese ad elevato reddito come l’Italia, e più in generale in tutto l’Occidente – di ridurre il tempo di lavoro e di dedicare una quota sempre più rilevante delle energie materiali e umane non a un’indefinita corsa alla crescita illimitata della produzione e del consumo di merci, ma alle più ricche e libere attività umane quali quelle dalla conoscenza e della cultura, proprio in questo momento prevale una concezione che tende a subordinare le attività formative e culturali a criteri economicistici o addirittura a una visione mercificante.
Ho parlato di contraddizioni “apparentemente paradossali” perché, in realtà, esse non si basano solo su errate valutazioni soggettive, ma affondano le radici in quel processo di “controriforma conservatrice” che a partire dagli anni ottanta si è sviluppato su scala mondiale. Un processo che certamente è stato favorito anche dalla crisi e dagli errori, spesso devastanti, delle ideologie e dei movimenti progressisti: ma che proprio per questo ha colpito al cuore le idee di preminenza dell’interesse pubblico, di regolazione del mercato, di impegno prioritario per la promozione dell’interesse sociale e delle attività formative e culturali, ossia quelle idee che erano state la base portante di una fase storica che, particolarmente in Europa, resta caratterizzata come la fase di realizzazione di un’esperienza di indubbio valore quale quella dello “Stato sociale”. Anche l’autonomia della cultura e delle politiche culturali è stata duramente violata dalla tendenza che questa controriforma conservatrice ha fatto emergere in modo sempre più marcato.
Per quel che in particolare riguarda l’Italia e, più specificamente, il settore dei beni culturali, non è certo un caso se già negli anni ottanta – cioè poco dopo che per tali beni era stato costituito in Ministero apposito, a proposito del quale si era assicurato (a mio avviso in termini illusori, come già allora ebbi a dire) che avrebbe avuto una struttura “atipica”, essenzialmente “scientifica e tecnica” – cominciò a manifestarsi la tendenza a spostare l’accento dai problemi specifici della tutela alla possibile redditività economica del patrimonio artistico e culturale. La prima iniziativa di questo tipo, di cui molto si discusse, fu quella dei famosi “giacimenti culturali”, promossa da De Michelis (che – va notato perché è significativo – era ministro dei Lavori Pubblici e non dei beni culturali). Quest’iniziativa si tradusse nella dispersione di molte centinaia di miliardi – molti per l’epoca e tanto più rispetto al poco che di solito si dedicava ai Beni culturali – senza alcun costrutto e non portò dunque ad alcun risultato positivo. Ma segnò una strada e contribuì a formare una mentalità. E infatti di lì a pochi anni seguì l’enfasi che si creò attorno alla proposta dei cosiddetti “servizi aggiuntivi”: cioè quei servizi (libreria, bar, ristorante guardaroba, ecc) che certamente sono necessari per agevolare i visitatori dei musei e che senza dubbio possono dare anche un certo reddito, ma che sono, appunto, un elemento di supporto e che in nessun modo possono diventare un fine. Poi vennero, via via, le leggi che in vario modo hanno, con crescente insistenza, spostato l’attenzione verso soluzioni di tipo privatistico e aziendalistico nella gestione dei beni culturali: sino a quel vero salto di qualità in negativo – la gestione del bene come merce, il fare cassa come fine – che caratterizza provvedimenti legislativi come quello che istituisce la “Patrimonio S.p.A”.
Su due punti voglio ancora richiamare l’attenzione, prima di concludere questa premessa: il primo è che , fortunatamente, una reazione così delle forze della cultura come delle associazioni impegnate in questo campo almeno in qualche misura c’è stata (in particolare contro i pericoli di una politica di privatizzazione e di alienazione) e ha costretto in più di un caso i governanti anche a passi indietro, rettifiche, correzioni, ricerca di soluzioni di compromesso: il peggio, che si temeva, non si è ancora del tutto verificato. E’ anche vero, però che si sono prodotte conseguenze negative che sarà assai difficile riassorbire. Mi riferisco, in particolare, al privilegio dato agli aspetti spettacolari di una politica di tutela (le mostre, i restauri di richiamo, gli eventi, ecc.) rispetto all’impegno quotidiano di studio e di conservazione; all’attenzione concentrata sul museo piuttosto che sul territorio ( sino a separare, proprio nelle maggiori città d’arte, il primo dal secondo); al crescente disinteresse per quelle strutture che non esercitano l’attrazione che ha il patrimonio artistico in senso stretto e che tuttavia svolgono – penso alle biblioteche, agli archivi ecc. – un ruolo decisivo per lo sviluppo culturale di un paese. Soprattutto, ha subito un colpo assai duro quello che era, e in parte è ancora, l’aspetto più qualificante del patrimonio culturale italiano: cioè quella sua diffusione e stratificazione sul territorio che per tanto tempo ha fatto dell’Italia un paese unico al mondo. Anni di lotta per reagire alla speculazione urbanistica e alla devastazione dell’ambiene, per richiamare l’attenzione sui centri storici sul paesaggio, sui valori ambientali, sul complesso legame fra il bene culturale e il contesto più generale in cui è inserito, rischiano di essere annullati dalle tendenze mercantilistiche ed economicistiche prevalse nell’ultimo periodo. Porre rimedio a questa situazione richiederà un impegno di ampio respiro e di lunga lena.
Il secondo punto è che non solo il settore dei beni culturali, ma il complesso della cultura e delle attività che lo qualificano è stato negativamente investito da questo processo. Nei giorni in cui scrivo questa introduzione, per esempio, è soprattutto l’organizzazione della ricerca scientifica che sta subendo duri colpi: non solo per il taglio dei finanziamenti che già da molti mesi era stato annunciato; ma col commissariamento del maggiore ente (il CNR) , coll’annullamento o la radicale riduzione delle forme di autonomia e di autogoverno democratico, colle decisioni dall’alto sul nuovo assetto di enti, centri, istituti, con la palese volontà di subordinare tutto il settore alle decisioni governative. Ma non è molto migliore la situazione di altri settori: dall’università – dove un’autonomia gestionale fortemente condizionata dalla contrazione dei finanziamenti pubblici e un’impostazione fortemente pofessionalizzante in senso praticistico stanno determinando un processo di americanizzazione in senso deteriore – al complesso dell’attività formativa e scolastica (rinvio, al riguardo all’analisi specifica sviluppata nel volume): per non parlare delle insidie sia per un reale pluralismo democratico sia per la qualità culturale dei prodotti che si presentano in modo sempre più marcato nel campo dell’informazione, delle attività di spettacolo, della comunicazione e soprattutto nel settore televisivo.
E’ doveroso dire, infine, che la sinistra – in particolare quella che ha avuto un ruolo di governo, ma non solo essa – non è certo immune da responsabilità per ciò che è accaduto negli ultimi due decenni. Se infatti si è realizzata un’autentica egemonia, nei diversi campi, delle ideologie della destra conservatrice – il mercato, l’impresa, il privato, in generale la prevalenza assegnata ai valori economici rispetto ad ogni altro criterio di valutazione – è anche perché debole è stata la resistenza opposta a queste ideologie. Anzi in molti casi esse hanno fatto presa – in Italia e fuori d’Italia – anche negli orientamenti di larghi settori della sinistra e nelle politiche da essa praticata.
Ciò si è verificato – si potrebbe osservare – in tutti i settori dall’organizzazione civile e sociale. Ma senza dubbio ha pesato particolarmente nel campo della cultura, dove la libertà della ricerca e della sperimentazione, l’autonomia dai vincoli di mercato, la preminenza dell’arte o delle scienze sull’economia sono condizioni essenziali per un più fecondo sviluppo. Si è così aggravato quel già difficile rapporto con la ricerca culturale più innovativa e più avanzata che durante tutto il Novecento ha rappresentato un handicap – accanto alla prevalente ideologia produttivistica – nello sforzo di affrancarsi compiutamente dall’egemonia del capitalismo e creare così le condizioni per cominciare davvero a costruire una propria egemonia.
Proprio per questo ho voluto inserire al termine del volume, un breve saggio – una riflessione appena accennata sul Novecento da Boccioni a Gehry – che non è la conclusione un po’ stravagante di una serie di scritti dedicati a questioni ben più attuali. Con questa riflessione ho invece voluto ricordare che il limite economicistico ha attraversato, durante il secolo che si è appena concluso, tutta la storia della sinistra anche nelle esperienze storicamente più rilevanti e ha inciso in particolare sul rapporto fra politica e cultura. Ciò ha significato, in sostanza, il permanere di una subalternità all’ideologia capitalistica: una subalternità che ancora non è risolta. Fare i conti con questi problemi non è dunque, per la sinistra, un tema secondario o collaterale: al contrario è uno dei temi di fondo che essa, proprio in un momento di grave crisi è chiamata ad affrontare.
 
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Il volume è stato recensito da Umberto D’Angelo, il 19 maggio 2003,
nel sito “PatrimonioSOS”.  Per leggere la recensione, clicca qui
 

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